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Perché io non posso?
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Foto: M. Canapini ®
Velika Kladusa. Da una tenda rattoppata fuoriesce Hassan, profugo di guerra divenuto volontario di Save The Children. “Sono qui da un mese e ventisei giorni. Cosa sta accadendo lo puoi vedere con i tuoi occhi. Ho tentato la via per l’Europa due volte, ma in entrambi i tentativi i poliziotti sloveni mi hanno riconsegnato ai croati che a loro volta, in un infinito gioco dell’oca, mi hanno riportato in Bosnia. Tanti giornalisti sono passati di qua, tutti hanno promesso aiuti, nessuno si è più rivisto. Vengono qui e combinano guai, come riprendere molti di noi in viso, quando alcuni dei ragazzi presenti scappano da dittature e persecuzioni etniche o religiose. O semplicemente le nostre famiglie non sanno che viviamo in queste condizioni, come animali, e vorremmo salvaguardare un briciolo di dignità. Raggiungerò l’Italia, Inch’Allah”. Raggiungere l’Italia è il sogno di molti, ma la maggior parte delle volte, per la maggioranza dei giovani in transito non ci sarà altra soluzione che i bivacchi notturni alla stazione di Milano, il sottoponte di Ventimiglia o i celebri silos di Trieste, distanti solo pochi chilometri da qui. Un’eterna, incerta odissea burocratica durante la quale ti abitui alle umiliazioni, ai pidocchi, alla spazzatura, ai fornelli improvvisati con assi marce, ai canali d’acqua rafferma che circondano le tende, agli sguardi vecchi dei bambini, alle mani alzate in cielo in segno di compassione. Ogni volta sradicati, rilanciati, cacciati, braccati, tentando di fare gruppo, squadra, comunità pur di non soccombere agli eventi. “Tre mesi in Serbia, tre mesi in Macedonia, tre mesi in Grecia. Può sembrare grandioso crescere viaggiando, ma ti assicuro che non è così romantico come sembra. Non è semplice nascondersi dalla polizia… restare a digiuno nel bosco per giorni, in attesa del trafficante pagato… bere acqua piovana, sai?” mi sussurra ora Hena, occhi vispi e capelli castani legati a treccia, dall’alto dei suoi dieci anni, con l’inglese acerbo di chi mastica la polvere della strada.
Raccontano di un ragazzo afghano che settimane fa, in preda a una sbronza mal calibrata, è scivolato in un foro rimanendo paralizzato. Travi bruciate, muffa, odore di sterco e urina, lampadine umide a irradiare i sotterranei di campi informali. Alcune tende da campeggio o grezzi ripari sono posti all’esterno del complesso, gettati nel parchetto di fronte. I vestiti stesi sopra cespugli appuntiti. Una fila incalcolabile di uomini soli attende il pasto di mezzogiorno servito dalla Croce Rossa, tagliando in due lo spiazzo frontale riempito in parte dai container dell’IOM adibiti a bagni pubblici. I numeri oscillano dai cinquecento ai novecento abitanti, seppur temporanei, seppur costantemente pronti a scattare verso il confine, affamati di normalità. La tenda sorretta da due pali in legno si impiastriccia di fumo e dell’odore del pane cotto nell’olio bollente. Khalil, trentasei anni, la sa lunga. Non entra nei dettagli, ma è un fiume in piena: “Novemila euro spesi per raggiungere la Bosnia dal Pakistan. Mille circa il passaggio in auto per superare il confine con la Croazia, previsto tra pochi giorni. A casa avevo un bel lavoro, una moglie, tre figlie. Se qualcuno vuole ammazzarti e non hai via di scampo, che fai? Scappi, eludi le tracce. So cosa pensano gli europei di noi, ma siamo esseri umani come voi. In frontiera ci hanno picchiato come animali, in questo campo abbiamo registrato dieci morti in tre mesi. Sopravvivi solo se crei un gruppo, altrimenti muori. Per noi non c’è futuro qui in Bosnia, lo stipendio medio è di trecento euro, se un locale guadagna poco figurarsi noi. Volete stoppare i flussi? Bene, smettete di finanziare governi complici, tagliagole, smettete di lanciare bombe; altrimenti cosa dovremmo fare? Setacciano i nostri paesi in cerca di materie prime, relegando chi se ne va in campi inadeguati come questo. Non si tratta di un centro d’accoglienza, questo è uno schifoso campo di terra e pietre e la notte può essere molto pericoloso tra alcool, risse, accoltellamenti, spaccio. Ovviamente dalla guerra e dalla povertà non scappano solo persone buone o tutto sommato civili, qui dentro puoi trovare pedofili, trafficanti, ladri, malati mentali. E se finisci i soldi cosa ti inventi? Spacci, ti prostituisci, entri nella rete criminale dei trafficanti, magari fino a quel giorno in cui metti da parte abbastanza soldi per riprovarci. È questa la realtà”. Trafficanti che si muovono ormai come agenzie turistiche, con l’occhio complice della polizia e della municipalità, mettendo sul tavolo pali, garanti, bonifici, pagamenti anticipati, soddisfatti o rimborsati, forse.Di tutto questo si immagina poco o nulla Firas, curdo-iracheno, ex informatico di Erbil, ora disteso su quattro stracci con una costola fratturata per il calcio ricevuto da un soldato croato. Vive con altri ventisei ragazzi in uno stanzone di quindici metri quadri. UNHCR ha recentemente migliorato il pavimento nudo coprendolo con una specie di grezzo parquet.
Nelle aiuole dell’ospedale cantonale Irfan Ljubijankic incespicano sei pakistani zoppi, sudici, visibilmente stanchi. I piccioni tubano tra le assi marcie del complesso, che si porta dietro un inconfondibile odore di cavolo marcio. Il gruppetto, composto da Aftab, Nabeel, Abdad, Faisal, Muhammad e Hamza, è stato respinto violentemente sul confine ieri notte. Vengono respinti anche dai medici e dagli infermieri dell’azienda ospedaliera, i quali non ne vogliono proprio sapere di migranti irregolari, dato che domani, mercoledì, un dottore farà visita al Đački Dom. Go there and wait! Stando alle parole di Nabeel, nato nel marzo del 1994, gli operatori dell’IOM si sono macchiati di omissione di soccorso, poiché, vedendo il gruppo bastonato al lato della strada, hanno preferito tirare dritto e far finta di nulla. “Non siamo criminali né profughi di guerra. Ce ne siamo andati dal Pakistan per la corruzione dilagante, sperando in una vita migliore. Perché ci picchiano come animali? Guarda qui”. Spalle, tibie e avambracci riportano graffi, ematomi, escoriazioni. Faisal, ventuno anni, cammina con una mano appoggiata sulle costole malridotte. L’altra la innalza con movenze da mercante meridionale: non c’è niente di cui preoccuparsi, sembra dire l’arto sospeso nel vuoto. Indossa una maglietta attillata con dei gattini perlinati disegnati sopra. Il labbro gonfio, spaccato in due.
Quali erano i sogni dei sei pakistani, prima di trovare i pugni croati, l’alito puzzolente di vodka dei gendarmi e le botte vigliacche rifilate sette contro uno? Che sensazione avranno provato, quando il barista del Café Piramida gli ha cacciati dai tavolini esterni con un secco: you can’t stay here... non siete legittimati a stare. Il Gioco è mentale, subdolo, e occorre reggere i muri anziché offrirsi ai crolli: parte intorno al monte Plješivica, ai piedi dell’abbandonata base area militare di Željava, dove si intravedono già le orme degli uomini stanati. Sul confine internet non esiste. L’occhio onnipresente di Google arranca tra la polvere della campagna, che buca con la maestria del cucito Bosnia e Croazia. In una stradina laterale dissipata di cingoli agricoli, i segni inconfondibili dei respingimenti: schermi dei cellulari fracassati, fogli di via strappati, barattoli di tonno e fagioli, scarpe senza suole. In più, braccialetti numerati e antidolorifici. Si evince una reclusione quando compaiono, sparpagliati nel fango, documenti “freschi” ma datati 3 agosto, ossia dieci giorni fa. Ancora Velika Kladusa: un ammasso di tende dentro una piana riarsa che misura in media quarantotto gradi centigradi. Un classico non-luogo, identico a tutti gli agglomerati infami del mondo.
Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).