Partiti da rigenerare

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Può sembrare fuori luogo discutere di forme e modelli di partito in un periodo di crisi economica come questo, a fronte di problemi ben più impellenti. Tuttavia sia per non cadere nel vecchio (e per nulla dimostrato) adagio che "con la filosofia non si mangia", sia perché siamo convinti che un buon rapporto tra cittadini e classe politica (quindi una buona democrazia) faccia bene anche alle casse dello Stato, perseveriamo nel nostro intento. Anche perché quando ci si interroga sui "costi della politica", sul destino di Berlusconi, sugli effetti perversi del "Porcellum" (e via discorrendo), in fondo ci si interroga sui partiti e sul loro ruolo. Senza contare che proprio su questo tema il dibattito, sia a livello scientifico che all'interno del mondo politico è particolarmente acceso e interessante.

Ma partiamo dall'inizio. È sotto gli occhi di tutti il dato che i partiti, foraggiati dal finanziamento pubblico, operano sempre meno sul territorio, a contatto con militanti e cittadini, e sempre più dentro lo Stato (ci sono studiosi come Katz e Mair che ne parlano esplicitamente), comportandosi essenzialmente come "macchine elettorali" finalizzate (avrebbe detto Schumpeter) alla conquista delle cariche pubbliche. Ed è altrettanto noto come questo loro modo d'essere li abbia fortemente penalizzati dal punto di vista della legittimazione di fronte all'opinione pubblica, tanto da denunciare -un po' in tutta Europa- un preoccupante calo delle iscrizioni.

Ebbene: proprio da questa analisi disincantata, si origina l'esigenza di un rilancio dei partiti che ne valorizzi le funzioni classiche di integrazione sociale, mobilitazione e partecipazione. Quasi un ritorno alla loro stessa ragion d'essere, che peraltro trova la propria giustificazione in solide e concrete rilevazioni di ordine empirico. Si pensi alle trasformazioni che hanno investito in questi anni le subculture "bianca" e "rossa", che -a dispetto di una presunta crisi della natura "popolare" della politica- vedono nel Nord Est la presenza, al posto della DC, di un partito che continua pur sempre a mantenere un forte radicamento sul territorio (la Lega); mentre nelle regioni tradizionalmente governate dalla sinistra, la persistenza di un denso tessuto associativo e di istanze partecipative, esige la presenza di partiti capaci di promuovere coesione sociale e alimentare lo spirito civico dei cittadini. Per non parlare del processo di progressiva individualizzazione del corpo sociale, tipico della società post-industriale, che da un lato ha favorito l'affacciarsi di una (minoritaria) cultura post-materialista, ma dall'altro ha anche provocato spaesamenti, solitudini e frammentazione delle identità che impongono il ritorno (per quanto in veste nuova) di partiti in grado di aggregare e ricomporre gli interessi sociali diffusi e dispersi.

Certo, perché ciò avvenga, servono partiti che attivino meccanismi di partecipazione "dal basso" e attribuiscano un ruolo centrale alla propria "base associativa" (fatta di iscritti, militanti e sostenitori). Nei quali, quindi, la leadership, anziché assumere i ben noti tratti "populistico-plebiscitari", si configuri come qualcosa di diffuso e collettivo, che nasce dal tessuto stesso del partito.

Questa lettura dei partiti e del loro ruolo non è naturalmente l'unica. Infatti, ve n'è almeno una seconda che, pur non opponendosi a quella sinora descritta, né volendo risultare ad essa alternativa, appare tuttavia piuttosto diversa. Si tratta di un'impostazione che, pur attribuendo il giusto peso all'aspetto organizzativo dei partiti, considera come prioritarie le dinamiche del sistema politico-istituzionale complessivo e quindi analizza i partiti (anche dal punto di vista della loro "natura", forma e identità) entro quella specifica cornice. Secondo questo punto di vista, ad esempio, va certamente riconosciuta la funzione positiva svolta dai grandi partiti popolari nel corso della Prima Repubblica, ma nel contempo bisogna anche ammettere come i condizionamenti da essi prodotti abbiano influenzato negativamente il funzionamento dei governi e l'intero circuito politico-istituzionale. Il bandolo della matassa, perciò, come sostiene Bardi, non sta (solo) in cambiamenti interni ai singoli partiti, ma in un "risanamento" complessivo del sistema, che passi attraverso riforme costituzionali ed elettorali in grado di completare la transizione istituzionale in senso "maggioritario". In questo modo è possibile dar vita a partiti nuovi, post-ideologici, di respiro europeo, dotati di "cultura riformista" e, soprattutto, costruiti in modo tale da alimentare (e non "uccidere") le leadership. Nella convinzione, che proprio dalla leadership si debba ripartire per rinnovare la politica italiana, rompere i conservatorismi e imporre le ragioni (spesso disattese) dell'interesse generale.

In realtà, anche se siamo di fronte a due posizioni -lo ripeto- conciliabili, è proprio quest'ultimo giudizio sul ruolo della leadership che ci permette di misurare la distanza fra le due prospettive: l'una (quella di Floridia e di altri studiosi) parte dal "basso" e appare più attenta alle ragioni "associative" e "di base" di un partito; l'altra invece muove "dall'alto", privilegiando gli aspetti istituzionali e quelli, per l'appunto, legati alla leadership. Ed è altrettanto chiaro come il dibattito su questi temi renda tuttora incerte una serie di questioni: dal ruolo delle primarie al modello di partito più consono al PD, sino al tipo di riforma elettorale preferibile.

Forse, per orientarsi meglio, ci si può appellare ad alcune considerazioni di metodo: come rilevano gli studiosi che si occupano di "qualità della democrazia" (soprattutto Almagisti e Morlino), le "procedure" per quanto importanti, non sono sufficienti. Esse, per essere efficaci dal punto di vista della democrazia, debbono vivere e operare in un "contesto" ricco di "cultura politica" e "capitale sociale". Probabilmente in questi lunghi anni di transizione, questi due livelli non si sono incontrati: abbiamo potuto votare spesso, abbiamo goduto dei benefici dell'alternanza, ma nel contempo è entrato in crisi il ruolo dei partiti come "ponte" fra società e istituzioni, come veicoli di socializzazione e consolidamento della democrazia. In fondo, recuperare queste funzioni non significa tuffarsi nel passato, riesumare il vecchio modello del "partito di massa", ma al contrario adattare creativamente una tradizione positiva alle nuove esigenze di una società più articolata ed esigente.

Alessandro Branz da Politicaresponsabile.it

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