La “guerra dei dazi”, specchio di una tensione globale

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Da alcuni mesi – anzi quasi dall’insediamento della presidenza Trump – leggiamo notizie sulla “guerra dei dazi” tra Stati Uniti e Cina. Non è semplice seguire le trattative tra le parti, l’imposizione reciproca di tariffe doganali, gli annunci positivi o negativi che si susseguono. 

Una chiave di lettura per comprendere la situazione è sicuramente ricordare le origini di quella che chiamiamo “globalizzazione”.In senso stretto essa è il versante economico della pax americana uscita dalla fine della Guerra fredda. Gli Stati Uniti, egemoni almeno da 30 anni, hanno imposto il loro modello basato sul libero commercio. Le rotte marittime – su cui transita la maggior parte delle merci – e gli stretti (veri “colli di bottiglia”) sono sorvegliati dalla marina a stelle e strisce, con le sue porta aerei e le basi militari sparse per le isole di tutto il globo. Da questo punto di vista la Cina, a differenza degli USA che hanno due oceani “liberi” dirimpetto a sé, per arrivare al mare aperto deve superare due collane di isole e gli stretti indonesiani, controllati dagli americani. Negli anni scorsi la Repubblica popolare ha scommesso sul modello della globalizzazione ed è entrata nel 2001 nel WTO, organizzazione del commercio mondiale: il liberismo sembrava aver vinto definitivamente.

A partire dalla crisi economica del 2008 ma soprattutto dall’ascesa geopolitica (e militare) della Cina le cose sono cambiate e gli USA hanno messo in discussione il modello imperante. Trump è un’eccezione per i suoi modi rudi e imprevedibili, ma la preoccupazione verso la Cina è elemento comune delle amministrazioni americane. Già Obama aveva spostato il baricentro verso il Pacifico. Non basta “contenere” la Cina, bisogna impedire che si sviluppi troppo soprattutto sulle nuove tecnologie legate all’intelligenza artificiale. 

Così Trump, spalleggiato dallo “stato profondo”, impone dazi, minaccia politiche mercantiliste, vieta alle aziende tecnologiche (statali) cinesi di entrare nel mercato USA perché potrebbero compromettere la sicurezza nazionale. Trump vuole anche se non impedire almeno monitorare l’importazione in Cina di quei materiali indispensabili per questo settore, dagli smart phone in giù.

Al contempo anche l’atteggiamento della Cina è cambiato. Benché nei vertici internazionali, Xi Jinping si presenti come l’alfiere del libero commercio, in realtà il regime securitario e autocratico della Repubblica popolare si è irrigidito anche per quanto riguarda l’intervento statale in economia. La Cina presenta squilibri ancora notevoli come testimonia l’invecchiamento della popolazioneIl colosso asiatico ha reagito alle pressioni statunitensi con l’espansionismo neocoloniale in Africa e con il progetto “Nuove vie della seta” che per ora si sta concretizzando soprattutto via terra. Il mare è ancora americano.

La partita è ancora aperta. Probabilmente non conviene a nessuno rompere in modo definitivo. Ma la tensione è destinata a restare, se non ad acuirsi. Il problema di Hong Kong e di Taiwan sono in cima all’agenda della dirigenza cinese. Le tensioni sulle isole del mar della Cina potrebbero sfociare in scontri armati, non si sa di quale entità. 

Gli altri Paesi sembrano essere spettatori di questo scontro. L’Europa cerca di parlare con una voce sola ma gli stati tendono ad andare in ordine sparso, a prescindere dal loro colore politico. L’Italia ha firmato un protocollo con la Cina. Alle merci cinesi si dovrebbero aprire maggiormente i porti. E così le vie terrestri.

Siamo ancora però in una fase interlocutoria. Va ricordato che, storicamente, quando fioriscono i commerci, aumenta la prosperità. Occorre però una potenza che garantisca la sicurezza. Nel corso della storia questa funzione l’hanno avuta l’Atene di Pericle che controllava l’Egeo, l’impero di Alessandro Magno, ovviamente l’Impero romano, i mongoli di Gengis Khan, per certi versi l’Impero britannico (sempre e comunque insidiato dalle altre potenze europee) e infine quello americano. In un’epoca frammentata e caotica come la nostra è difficile che permanga un duraturo “ordine” mondiale o che se ne instauri pacificamente uno nuovo. 

Articolo parzialmente pubblicato dal quotidiano “Trentino

Piergiorgio Cattani

Nato a Trento il 24 maggio 1976. Laureato in Lettere Moderne (1999) e poi in Filosofia e linguaggi della modernità (2005) presso l’Università degli studi di Trento, lavora come giornalista e libero professionista. Scrive su quotidiani e riviste locali e nazionali. Ha iniziato a collaborare con Fondazione Fontana Onlus nel 2010. Dal 2013 al 2020 è stato il direttore del portale Unimondo, un progetto editoriale di Fondazione Fontana. Attivo nel mondo del volontariato, della politica e della cultura è stato presidente di "Futura" e dell’ “Associazione Oscar Romero”. Ha scritto numerosi saggi su tematiche filosofiche, religiose, etiche e politiche ed è autore di libri inerenti ai suoi molti campi di interesse. Ci ha lasciati l'8 novembre 2020.

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