L'Africa? Fa acqua da tutte le parti

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Africa uguale siccità? Non proprio. Africa uguale a mezzo milione di chilometri quadrati d’acqua raccolti nel sottosuolo. Non tutta quest’acqua è facilmente raggiungibile per l’estrazione, ma come ci spiega uno studio della Enviromental Research Letterscondotto su circa 283 differenti bacini idrici, in molti paesi africani “pozzi opportunamente collocati e adeguatamente costruiti” possono sopportare un cospicuo aumento dell’estrazione idrica, sebbene debbano rispettare “pause per ricaricare le riserve” le quali hanno per il basso e talvolta bassissimo sfruttamento una “età ciclica compresa tra 20 e 70 anni”.

L’obiettivo dello studio è anche quello di arrivare a una valutazione più realistica della sicurezza idrica e dello stress idrico, attraverso più accurate analisi regionali e locali, onde evitare che si finisca per esaurire facilmente una pur ricca portata d’acqua. Tuttavia anche piccoli passi avanti nell’approvvigionamento idrico dell’Africa garantirebbero migliori condizioni di vita. “Si stima che sono circa 300 milioni le persone senza un accesso stabile all’acqua potabile e che vivono in territori dove solo il 5 per cento delle terre coltivabili è effettivamente e regolarmente irrigato. Pertanto occorre capire bene come tali bacini possono essere sfruttati, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo” ha affermato lo studio della Enviromental Research.

Un altro ostacolo da superare è la distribuzione dei bacini sotterranei che non è uniforme nel Continente: le riserve più grandi sono sotto i paesi nordafricani e del Sahel. In quella zona, secondo le valutazioni dei ricercatori, il bacino è “spesso” 75 metri ed è, in sostanza, quello che resta dell’acqua che una volta, ben cinquemila anni fa, era abbondante nell’Africa settentrionale. Un secondo grande bacino giace tra la Repubblica Democratica del Congo e la Repubblica Centrafricana, mentre un terzo è nel sud, a cavallo di Namibia, Botswana, Angola e Zambia.

Tuttavia lo sfruttamento di queste strategiche risorse non è impossibile. A dimostrarlo c’è la Libia che negli scorsi anni è riuscita a fornire acqua a quasi tutta la popolazione grazie alle acque sotterranee scoperte nel sud del Paese ed in particolare da un acquifero denominato Nubian Sandstone Aquifer System. Si tratta di un immenso bacino, formatosi in ere precedenti e non rinnovabile scoperto negli anni ’50 sul quale si è concentrato un mega progetto risalente al governo di Mu’ammar Gheddafi denominato “Il Grande Fiume Fatto dall’Uomo” (The Great MenMade River), che trasporta l’acqua per centinaia di chilometri fino alle coste mediterranee.

Ma mentre l’Africa insegue l'acqua in buona parte del mondo questa risorsa “è data per scontata” ed è soggetta ad un consumo, di questo passo, insostenibile. In uno studio del 2011, pubblicato sui “Proceedings of the National Academy of Sciences”, i ricercatori hanno realizzato una stima quantitativa del consumo di acqua di ciascuna nazione stimandone i flussi internazionali sulla base degli scambi di prodotti agricoli e industriali. I risultati non sono stati confortanti. Si stima che l’impronta idrica globale media annua, intesa come il volume di acqua dolce necessario per la produzione dei beni e dei servizi consumati da un individuo, nel periodo 1996-2005 è stata di 9.087 gigametricubi all’anno alla quale la produzione agricola contribuisce per ben il 92%:

 il maggior contributo spetta alla produzione cerealicola (27%), seguita dalla carne (22%) e dai prodotti lattiero-caseari (7%). Dallo studio emerge, chiaramente, che il consumo idrico varia notevolmente da Paese a Paese: “L’impronta idrica del consumatore medio globale è di 1.385 metri cubi - si legge su Sciences - ma se il consumatore medio negli Stati Uniti ha un’impronta idrica di 2.842 metri cubi, in Cina e India questa è pari rispettivamente a 1.071 e 1.089 metri cubi”. Tra
i maggiori importatori di acqua virtuale in gigametri cubi all’anno troviamo gli Stati Uniti, (234), il Giappone (127), la Germania (125), la Cina (121), l’Italia (101), il Messico (92), la Francia (78 ), il Regno Unito (77) e i Paesi Bassi (71). Mentre i maggiori esportatori sono Stati Uniti (314), Cina (143), India (125), Brasile (112), Argentina (98), Canada (91), Australia (89), Indonesia (72), Francia (65) e Germania (64).



“D’altra parte - hanno osservato i ricercatori - alcuni paesi africani come Ciad, Etiopia, Niger, Repubblica Democratica del Congo, Mali e Sudan hanno un’impronta idrica esterna molto limitata, inferiore al 4 per cento del totale”. 
 Una lezione che pur trovando spiegazione nel difficile accesso all’acqua, evidenzia un differente stile di vita che dovremmo imparare ad esportare, perché oggi più che mai “Conoscere la dipendenza dalle risorse idriche - hanno concluso gli autori di Sciences - è rilevante per un Governo non solo allo scopo di valutare la propria politica ambientale, ma anche nel momento in cui si valuta la sicurezza alimentare nazionale.” Una sicurezza, che soprattutto in Africa, è sempre più minacciata dalla deviazione delle acque e delle terre per la produzione di biocarburanti che sottraggono risorse alla produzione di prodotti alimentari primari per l’agricoltura”.

Anche se la produzione di biocarburanti potrebbe essere una valida sostituzione all’uso del petrolio non è detto che sia la via migliore per salvaguardare “l’oro blu”.

Alessandro Graziadei

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