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Kapuscinski nel cuore, 5 anni dopo
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Sono passati cinque anni dalla morte del grande reporter polacco Ryszard Kapuscinski (23 gennaio 2007). Nessun giornale italiano se n’è accorto. A Varsavia è stato ricordato con una serata in suo onore e con l’uscita di un nuovo libro. Ma l’Italia, lo sappiamo, è malata. Vive il suo dramma politico, la sua crisi finanziaria, il suo spaesamento culturale. L’informazione – non tutta certo, ma in buona parte - è un coacervo di umori negativi, di tensioni vere o supposte, di demonizzazioni giocate sul filo della falsità e della manipolazione, di depressioni lavorative e schizofrenie organizzative.
L’etica è un vezzo d’altri tempi, è la rottura di un’idea di giornalismo che misura il suo essere secondo la pura logica amico-nemico. Per questo giornalismo Kapuscinski è morto e sepolto. Passano gli anni, si segnano gli anniversari, ma il suo nome non compare più in nessun titolo di giornale, se non per rivelare piccoli scandali post-mortem (è stato o non è stato una spia dei servizi segreti comunisti polacchi? È stato o non è stato un padre severo, un marito inaffidabile, un creatore di favole?).
Ci sono redazioni in cui si ride all’idea che Kapuscinski abbia posto il problema dell’etica nell’informazione. Sciocchezze. L’etica non può muovere la penna del giornalista liquido-moderno. L’etica è la memoria di un pensiero che ha misurato la storia con il piede lento della riflessione, non ha nulla da spartire con il vettore della velocità di un mondo esposto al caos dell’ammutinamento generalizzato. Kapuscinski, per questa informazione, non è che un vecchio a cui si deve rispetto e onore, ma assolutamente inadatto a interpretare la dannazione di un’epoca in cui non l’armonia ma la divisione è la regola della storia.
Il reporter polacco vedeva il giornalismo come una missione civile. Parlava di passione, di amore, di emozione. Si lasciava andare al canto, alla poesia, come se il giornalismo avesse dentro di sé un cuore creativo. Il giornalista era per lui un uomo di pace. Il buon giornalista è il reporter amorevole, non il cinico, è colui che amorizza il mondo come scrisse Teilhard de Chardin, che ripete dentro di sé il principio evangelico: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Il giornalista si confonde nel popolo, condivide i drammi, le gioie, le paure, le sofferenze di chi ha intorno. Altro che amico-nemico. Il giornalista è colui che trasforma la violenza in nonviolenza, è colui che sta dalla parte degli ultimi per guardare il mondo con occhi che lacrimano. È artefice del destino, è autore e cocreatore della grande commedia umana.
Kapuscinski ha imparato il mestiere di giornalista sul campo. Negli anni Cinquanta ha iniziato a viaggiare nel mondo come corrispondente dell’agenzia polacca PAP con cui ha lavorato fino al 1981. Le sue avventure sono incominciate subito con i primi resoconti dall’India e dalla Cina. Ricorda di essere stato catapultato in un mondo che non conosceva assolutamente. La vita gli si è spalancata davanti con le sue enormi contraddizioni. Senza telefono, senza computer, senza fax, il giovane reporter raccoglieva le notizie attraverso il canale più sicuro, quello delle relazioni umane.
Viaggiare era il suo modo di vivere. I libri erano i suoi compagni più fedeli: «Leggo tantissimo. Studio la storia. Mi interessano i grandi storici come Gibbon, Mommsen, Ranke, Michelet, Burckhardt, Toynbee. Poi viene la filosofia, la mia grande passione».
Ha raccontato la storia dal basso. Ha vissuto nelle baracche dei miserabili, nelle tende del deserto algerino, nei villaggi ugandesi dove ha rischiato di morire di malaria cerebrale, ha tremato, insieme al popolo, nei giorni del colpo di Stato militare del 1966 in Nigeria, ha raccontato la storia drammatica del Ruanda finita in un bagno di sangue nel 1994, ha descritto i colori dell’Eritrea sconvolta da decenni di guerra con la vicina Etiopia: «L’europeo di passaggio in Africa – scrive in Ebano – di solito ne vede solo una parte, ossia l’involucro esterno, spesso il meno interessante e forse anche il meno importante. Il suo sguardo scivola sulla superficie senza penetrare oltre, quasi incredulo che dietro a ogni cosa possa nascondersi un segreto e che questo segreto pervada le cose stesse».
Non manca l’America Latina. I piedi del reporter hanno percorso vari Paesi lungo tutti gli anni Sessanta e Settanta, anni di feroci dittature. Ha raccontato la guerra fra Salvador e Honduras, nota come la «guerra del calcio» perché scoppiò durante le qualificazioni per i mondiali del Messico del 1970.
Ha attraversato l’impero sovietico in sfacelo viaggiando per quarantamila chilometri. Ha riportato alla luce i ricordi delle persone semplici, grazie alle quali ha ricostruito la grande storia senza preoccuparsi troppo di analizzarla secondo categorie ideologiche. Ha fatto parlare le vittime, gli oppressi, i dannati della terra. Voleva conoscere, sapere, voleva esserci nel turbinio della storia: «La mia curiosità mi spinge continuamente in giro per il mondo. Non esiste un luogo sulla terra dove mi sentirei di dire: “Voglio restarci per sempre” … In qualche modo siamo tutti nomadi e sempre più lo diventiamo». Come era nelle intenzioni del grande Erodoto di Alicarnasso, l’autore greco delle Storie, che Kapuscinski considera come il padre e il precursore di un genere di scrittura: il reportage. In viaggio con Erodoto è il racconto di un’avventura alla ricerca degli altri: «Ma come faceva Erodoto, essendo greco, a sapere che cosa narrassero i lontani persiani, i fenici, gli abitanti dell’Egitto e della Libia? Recandosi di persona in quei paesi, interrogando, osservando e raccogliendo dati in base a ciò che vedeva e che la gente gli raccontava … Più leggevo Erodoto, più scoprivo in lui un’anima gemella. Che cosa lo aveva indotto a muoversi, ad agire, a intraprendere lunghi viaggi e spedizioni rischiose? Probabilmente la curiosità del mondo, il desiderio di esserci, di vedere e di sperimentare tutto di persona. Una passione del genere è rara a trovarsi».
Ho avuto la gioia di vivere gli ultimi momenti felici della sua vita. Nell’ottobre del 2006, tre mesi prima della morte improvvisa, venne a fare il suo ultimo viaggio terreno a Bolzano. Furono tre giorni indimenticabili. Ryszard rideva, si raccontava ai giovani, ma soprattutto ascoltava, chiedeva, interrogava. Ci disse: “Le terre di frontiera come l’Alto Adige sono le terre del futuro, dove i popoli si incontrano e si contaminano a vicenda. Nessun popolo e nessun uomo è un’isola. La vita vive di contaminazioni continue. Siete la germinazione di una società futura”. Fu un evento che segnò profondamente la storia del Centro per la Pace e della città di Bolzano. La moglie Alicja scrisse pochi mesi dopo la morte di Ryszard: “Quando tornò dal viaggio a Bolzano mi disse: è stato uno degli incontri più belli che ho fatto”. Alicja, insieme alla figlia René, venne l’anno successivo a camminare sui sentieri di Ryszard. Lo abbiamo ricordato ogni anno perché lo abbiamo nel cuore. Kapuscinski siede fra passato e futuro. Ci ha raccontato il passato, ci ha indicato il futuro.
Francesco Comina