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Effetti collaterali
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Foto: M. Canapini
Nel dicembre 2019, seguendo le principali rotte dei migranti/profughi lungo i confini d’Europa, ho trascorso due settimane in Tunisia, “in bilico” tra fuggiaschi e instabilità collettive. Condivido un estratto di quei racconti “d’oltremare”, radicati sulla frontiera.
Stazione di Djerba. Narjes, settant’anni, ha assimilato l’italiano da autodidatta, guardando i canali Rai in tv: “Questa chiesa - indica una struttura apparsa dietro l’angolo dell’agglomerato - è stata costruita da immigrati maltesi e siciliani. Nel tentativo di scappare dalla povertà del meridione italiano si rifugiarono in Tunisia per svolgere il mestiere di pescatori e contadini.
C’era un tempo in cui i disperati erano italiani e attraversavano il Canale di Sicilia per emigrare nei paesi della sponda sud del Mediterraneo: Tunisia, Egitto, Marocco, Algeria. Un percorso contrario rispetto a quello intrapreso oggi da centinaia di migliaia d’immigrati che dall’Africa fuggono per scampare a guerre e forme di povertà. L’emigrazione siciliana in Tunisia cominciò intorno al 1853.
I primi a trasferirsi furono gruppi di specialisti nella cattura (e raccoglimento) di tonni e coralli. Sebbene la storia sia ciclica il tema dell’immigrazione clandestina rimane un argomento tabù. Se ne parla poco, ma chi vuole imbarcarsi lo fa proprio da qui, Zarzis o Sfax. Nessuno fiata a meno che capiti un incidente. Gli unici stranieri sembrano essere gli expat europei che in Tunisia fanno la bella vita”. L’associazione creata da Narjes e compagni si chiama Cittadinanza e Libertà. È nata nel 2011, nel pieno della Primavera Araba. Djerba è divenuta in poco tempo un laboratorio di connessioni. Il caffè teneva svegli e chi dorme poco pensa molto e a forza di pensare ci può scappare la rivoluzione. Si discuteva di democrazia, femminismi, ecologia, radicalizzazione dei giovani terroristi (apparsi secondo molti dopo la caduta di Ben Alì, poiché foraggiati dai gruppi islamici a cui fino a due anni prima non era permesso fare politica). “Essere cittadini significa essere coscienti, attori responsabili della propria città. Protestiamo costantemente contro le frontiere, come accaduto durante la vicenda di Agrigento e l’arresto di Chamseddine. Le autorità tunisine dovrebbero interessarsi ai flussi, comprenderli, invece sono complici tanto quanto l’Italia e la Libia. Vorremmo essere una terra che accoglie ma ai piani alti manca la volontà di essere solidali. Se ne dovrebbe parlare di più, ogni giorno: dei morti, dei giovani che partono, della guerra terribile oltreconfine. Nascondere la verità dei fatti è inutile, limita le eventuali soluzioni”.
Dalla chiesetta greco-ortodossa di St. Nicolas, costruita con poche assi laddove una volta arrivava il mare, transitiamo dentro Guellala, il borgo dei mastri vasai, l’arte secolare di Djerba. Nei campi asciutti spuntano tre casolari di tegole rosse, abbandonate come le masserie del Salento.
“Siamo stanchi, ancora sotto shock per le trasformazioni repentine della società tunisina.
Dobbiamo resistere. E’ necessario agire sulla frontiera per capire da dove nasce la frustrazione di chi emigra. Anche il problema del terrorismo, che lo si voglia ammettere o meno, nasce dalle periferie. Chi scappa per combattere in nome di Allah e chi per trovare lavoro in Europa non credi che provenga dallo stesso humus? - rilancia Narjes, guidando piano - Chi prende il barcone cerca lavoro e benessere, influenzato dalla tv che parla di ricchezza e libertà. Chi ce la fa (pochi) torna con una bella macchina, un terreno, una casa, gli altri si chiedono: perché io non posso?.
È un sogno che ti acceca. O lo faccio o muoio, tanto qui è come morire, dicono in molti”. L’effetto domino: il collasso dei confini e le masse in movimento come gocce di mercurio. “Tuttora non sappiamo quanto ci vorrà per tornare stabili. È importante liberare le menti dalle catene dei media, abbattere gli stereotipi che dipingono la Tunisia un paese misero, vicino alla guerra, islamico. Ma se rappresentiamo un baluardo contro gli estremismi! Hai visto le donne tunisine? Siamo un esempio in merito a progressismo, cultura di genere, femminismo. Eppure i giornali vengono qui a intervistare unicamente i trafficanti, a dar voce alle periferie disagiate. Hanno un protocollo in testa e vogliono che sia confermato”. Un gatto randagio attraversa la strada bianca come farina. “Il 2011 nonostante tutto è stato un momento incredibile. Sono già passati otto anni ma sembra essere accaduto ieri. Viviamo dentro un processo mai concluso. Quando è scoppiata la guerra in Libia centinaia di bangladesi, filippini, egiziani, subsahariani sono scappati in Tunisia: tutti migranti e/o lavoratori a cui i paramilitari libici avevano rubato soldi e documenti. L’aeroporto di Djerba all’epoca sembrava un campo profughi. Serbo un ricordo nitido di quei giorni furiosi: le lacrime di un padre a cui avevo regalato un foulard per la figlia”. Il mare, come la Storia, va a ondate.
Flussi salati continuano a portare oggetti: rossetti, pettini, felpe, pezzi di noi.
Il cafè Amira è gremito come ogni giorno da secoli. Un espresso potrebbe durare mezza giornata. “In guerra c’è solo da perdere. - conclude Narjes, un po’ incupita dopo l’intervista realizzata - Come scriveva Hemingway la guerra è un carnaio da cui si esce solo menomati nel corpo e nell'anima. E crea marginalizzazione, disagio, povertà, mancanza di diritti basilari. Ad esempio tre anni dopo la chiusura del campo di Shusha, vicino alla frontiera libica, una sessantina di persone (perlopiù profughi e migranti economici fuggiti da Tripoli) vegeta ancora nel deserto tunisino, in attesa di un ipotetico reinsediamento all’estero. E’ possibile? Il campo all’epoca è stato chiuso per mancanza di fondi e secondo il governo non era urgente mantenerlo; eppure conteneva circa mille persone, trenta nazionalità diverse. In molti volevano restare. Un paio di Ong hanno incentivato il ritorno a casa. Nessuno è voluto ripartire. Abbiamo poi scoperto che alcuni di loro hanno tentato la traversata senza mai arrivare”. Mare nostrum.
Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).