Dovremmo essere tutti stanchi!

Stampa

Foto: Andras Stefuca da Pexels.com

Sinceramente, penso dovremmo essere tutti stanchi.

Dovremmo essere stanchi del senso di nausea che proviamo ad ogni nuovo annuncio di naufragio nel Mediterraneo. Stanchi dell’indifferenza con cui aggiungiamo morti anonimi, numeri senza volto e senza storia, all’elenco spaventoso della strage di questi anni. Soprattutto, dovremmo essere stanchi della crudele ipocrisia che usiamo per parlare di questa tragedia.

Gli ultimi accertati sono i morti al largo di Tunisi. Complessivamente, si parla di almeno 2mila morti quest’anno, 2mila annegati. Sono certamente di più. Quello di cui non parliamo, che evitiamo di raccontarci è che i responsabili di quelle morti, di quella strage, siamo tutti noi.

Raccontiamo dei viaggi su barconi e barche della morte, oscurando l’elemento fondamentale: siamo noi, italiani ed europei, che con le nostre leggi costringiamo milioni di persone a viaggiare e morire così.

Emigrare non significa morire in un viaggio incerto e crudele. Non è mai stato così. Non è stato così per milioni di italiani emigrati nel Mondo nel 1800 e nel 1900. Non è così per i quasi 200mila italiani, che ogni anno lasciano il nostro Paese convinti che qui non ci sia futuro per loro. Se ne vanno usando treni, autobus, aerei. Viaggiano in tutta sicurezza. Vanno verso un futuro incerto, ma ci vanno senza rischiare la vita.

Emigrare è questo. È banalmente questo. Non è attraversare un deserto affidandosi a malavitosi che ricattano, stuprano, rubano, uccidono. Non è restare per mesi prigionieri di bande criminali in Libia, Turchia o Tunisia, rinchiusi in gulag pagati dai governi italiani ed europei. Non è essere costretti a salire su barche fatiscenti – o camminare lungo la pericolosa rotta dei Balcani – sperando di toccare terra o di essere salvati dalle navi delle ong.

Emigrare è un diritto riconosciuto dalla comunità mondiale, soprattutto da quella parte – Europa e Italia – che si proclama patria dei Diritti Umani, quei diritti che sanciscono, appunto, il diritto ad emigrare. Non è così. La Fortezza Europa, Italia inclusa, chiude le porte, spaventata dall’arrivo di 120-150mila persone all’anno. E lo fa giocando con le parole. Un gioco spudorato e sporco, oscuro come la nostra coscienza. Perché coloro che viaggiano lasciando la loro casa per raggiungere un luogo che sperano migliore, si chiamano emigranti, con la “e” davanti. Definirli, come facciamo, “migranti” significa metterli in un mondo generico, in cui non si scandisce un luogo da cui sono partiti e uno in cui sono arrivati. Quando arrivano e si stabilizzano, infatti, quelle persone diventano immigrati. Farli uscire dalla genericità perversa dell’essere “migranti”, significherebbe riconoscere a quegli esseri umani un punto di partenza e uno d’arrivo e, di conseguenza, riconoscere che hanno una faccia, una storia, un nome, una vita. Tutte cose che evitiamo di riconoscere. Quelle persone le chiudiamo in un limbo astratto e non umano: quello dei migranti, del nulla, appunto.

Un limbo con cui possiamo convivere, raccontandoci balle e nutrendoci di ambiguità. Basterebbe cambiare le leggi che ci siamo dati. La Bossi-Fini legge del 2002, è la madre di tutto questo. È il sigillo che abbiamo usato per impedire agli stranieri di venire in Italia ed Europa. Abbiamo tenuto aperto un falso varco, quello dei profughi, per chi scappa da guerre e disgrazie. Così, chi arriva in Italia, se vuole restare almeno un po’ deve dichiararsi “profugo” e chiedere “asilo politico”. Questo comporta un sistema di accoglienza assurdo e costoso, una situazione di emergenza che dura da trent’anni e che non ha avrebbe alcuna ragione di esistere, se solo gestissimo il fenomeno migratorio per quello che è. Se abbattessimo la Bossi-Fini, con tutti i suoi derivati, tutto questo finirebbe. Se regolamentassimo il flusso migratorio per quello che è nel Mondo, tutte queste stragi non esisterebbero. Non avremmo più rotte della morte, campi di concentramento in Libia, Tunisia e Turchia, ong in mare per salvare vite. 

Nessun governo, a prescindere dal colore, lo ha fatto in questi 21 anni. Noi cittadini non lo abbiamo fatto per tutto questo tempo. Ogni volta che piangiamo un morto in mare ricordiamolo: siamo noi, tutti noi, i responsabili.

Raffaele Crocco

Sono nato a Verona nel 1960. Sono l’ideatore e direttore del progetto “Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo” e sono presidente dell’Associazione 46mo Parallelo che lo amministra. Sono caposervizio e conduttore della Tgr Rai, a Trento e collaboro con la rubrica Est Ovest di RadioUno. Sono diventato giornalista a tempo pieno nel 1988. Ho lavorato per quotidiani, televisioni, settimanali, radio siti web. Sono stato inviato in zona di guerra per Trieste Oggi, Il Gazzettino, Il Corriere della Sera, Il Manifesto, Liberazione. Ho raccontato le guerre nella ex Jugoslavia, in America Centrale, nel Vicino Oriente. Ho investigato le trame nere che legavano il secessionismo padano al neonazismo negli anni’90. Ho narrato di Tangentopoli, di Social Forum Mondiali, di G7 e G8. Ho fondato riviste: il mensile Maiz nel 1997, il quotidiano on line Peacereporter con Gino Strada nel 2003, l’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo, nel 2009. 

Ultime notizie

COP30: la cronaca della delegazione di Agenzia di Stampa Giovanile

10 Novembre 2025
Una delegazione di 9 giovani e ricercatori trentini è alla Conferenza ONU sul Clima (COP30) a Belém, in Amazzonia, per raccontare e condividere il futuro del Pianeta.

Una vi(t)a semplice

10 Novembre 2025
Il progetto "L’ovale storto" racconta le capacità riabilitative, propedeutiche e inclusive della palla ovale. (Matthias Canapini)

Cosa vogliono gli africani dalla COP30

09 Novembre 2025
Invece di continuare ad aspettare gli aiuti, l'Africa sta cercando di mobilitare investimenti nella sua transizione verde. (Other News)

I Partigiani della Pace

08 Novembre 2025
I Partigiani della Pace: testimoni e costruttori di un futuro possibile. (Laura Tussi)

Il Punto - Tra isole, frontiere e assedi il Mondo resta in equilibrio instabile

07 Novembre 2025
Viviamo in un Mondo in cui la pace è un intervallo e la guerra una condizione. (Raffaele Crocco)

Video

Serbia, arriva a Bruxelles la maratona di protesta di studenti per crollo alla stazione di Novi Sad