Corno d’Africa. Le guerre, le fughe e la nostra ignoranza

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Uno degli slogan preferiti di coloro che si lamentano degli immigrati nel nostro paese – e vogliono contemporaneamente lavarsi la coscienza – è: “aiutiamoli a casa loro”. Peccato che le implicazioni reali di questa frase in genere non vengano mai argomentate (è uno slogan, appunto). Che cosa sappiamo veramente di questa “loro casa”? Che cosa sappiamo delle ragioni che spingono milioni di persone a partire e abbandonarla rischiando la morte per terra e per mare? Che cosa sappiamo delle nostre eventuali responsabilità (in quanto occidente, in quanto Europa, in quanto Italia stessa) passate e presenti? Se si parte da questo, ovvero da una reale volontà di indagare “le ragioni a monte del processo migratorio”, ecco che la frase “aiutiamoli – anche – a casa loro” acquista finalmente un senso, ed è il motivo per cui le Acli hanno organizzato a Roma un seminario intitolato “Corno d’Africa. In fuga da guerre senza nome e senza fine”, che ha visto la partecipazione dell’africanista ed esperto di colonialismo Gian Paolo Calchi Novati, del candidato al Nobel per la Pace padre Mussie Zerai, e di vari rappresentanti delle comunità eritrea, etiopica, keniota, somala e sudanese in Italia.

“Conoscere significa anche smontare alcuni degli stereotipi più duri a morire – ha spiegato Antonio Russo, responsabile Immigrazione della Presidenza nazionale Acli –. Secondo l’Unhcr i rifugiati nel mondo hanno ormai raggiunto la cifra di 60 milioni, ma quanti sanno che 7 su 10 sono accolti nei paesi del Sud del mondo? Il più grande campo profughi, con 400.000 rifugiati, si trova in Kenya, mentre il Libano nel suo piccolo territorio ne accoglie oltre un milione. Forse, questo sentirsi assediati da parte dell’Europa va un po’ ridimensionato”. Nemmeno sulla storia che ci riguarda, quella del Corno d’Africa nel quale si è esercitato il passato coloniale dell’Italia, c’è consapevolezza e conoscenza diffusa: “Al contrario – precisa Russo – si tratta di un passato con il quale in Italia ci siamo confrontati pochissimo, eppure abbiamo delle responsabilità importanti”. Tanto più che proprio l’Eritrea, ex colonia italiana, rappresenta oggi il secondo paese di provenienza dei migranti che approdano in Italia, appena dopo la Siria. “Paradossalmente i primi migranti dalle ex colonie che gli italiani hanno conosciuto sono i morti di Lampedusa” ha commentato Calchi Novati, che ha messo in luce un’anomalia tutta italiana: “Dai paesi africani colonizzati si è sempre avuta una migrazione verso le rispettive potenze colonizzatrici. L’Italia, invece, non li ha mai voluti far entrare, nemmeno per partecipare alle proprie guerre. Questo spiega in parte lo sconcerto attuale”.

Indagando ancora sulle vicissitudini storiche di paesi come Eritrea, Etiopia e Somalia, lo studioso ha messo in luce diversi problemi di ordine interno ed esterno: dai vari blocchi di potere che hanno costituito Stati ed autorità a discapito di popoli, religioni ed etnie, al colonialismo stesso che, rispondendo a spinte esterne, finisce per “agire anche come forza interna, utilizzando e strumentalizzando le divisioni che trova sul terreno per i propri fini”. Da qui fino ai conflitti per l’indipendenza tra Etiopia ed Eritrea e alle successive guerre di confine – si ricordi quella del 1998 sempre con l’Etiopia, conclusasi con l’insediamento di una commissione internazionale che ha stabilito una linea di confine dando ragione all’Eritrea – le cui conseguenze mostrano come questi paesi non possano oggi più prescindere dalla geopolitica globale. “L’Etiopia si volge ai paesi occidentali mentre l’Eritrea, per dispetto, copre tutte le cause che danno loro fastidio come, per esempio, quella jihadista – spiega ancora lo studioso – E questo è un assurdo perché il governo eritreo non è certo musulmano. Tutto questo ha fatto sì che il Corno d’Africa sia diventato una zona di guerra e oggi sono molti i migranti che arrivano da questa area”.

Padre Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia e da anni impegnato ad aiutare i suoi fratelli eritrei in fuga, tra le criticità attuali ha sottolineato anche le dispute sugli oleodotti e le varie guerre per il petrolio: quella tra il Sudan e il Sud Sudan così come quella in Somalia, o ancora le concessioni petrolifere dell’Etiopia a compagnie cinesi e svedesi, considerate illegittime dalla popolazione locale. E il nostro paese, come si comporta in tutto questo? “Si è dovuto attendere il 2014, ovvero la visita di Lapo Pistelli nel Corno d’Africa, a seguito di un mandato dell’Unione Europea che spronava l’Italia a fare di più in questi paesi protagonisti del suo passato coloniale – spiega Zerai –. E’ il Processo di Khartoum che tra le finalità aveva: il controllo e la gestione di flussi migratori, con allestimento di campi profughi Unhcr nei paesi di transito; il contrasto al traffico di esseri umani; l’apertura di canali di migrazione; la messa in campo di iniziative politiche ed economiche per eliminare le cause di migrazione dai paesi dei migranti”. Padre Zerai invita però a fare attenzione: “Nonostante l’accenno, non si tratta dei tanto invocati corridoi umanitari”. I quali per il sacerdote presuppongono tre elementi irrinunciabili: “Devono partire dai paesi di transito, con ambasciate aperte e attrezzate per accogliere le domande; devono garantire condizioni di vita dignitose per i transitanti; infine l’Ue deve dotarsi di un sistema unico di accoglienza, accettato da tutti i paesi membri, ma senza andare al ribasso degli standard. Di tutto questo, nel processo di Khartoum non c’è traccia”.

A questo si aggiunga la scarsa sicurezza negli stessi campi profughi, con i militari locali spesso in combutta con i trafficanti di esseri umani e, ancora peggio, l’apertura di una linea di credito nei confronti dei dittatori, i quali sono spesso la causa della fuga e invece vengono trattati come la soluzione. “Se, come si giustifica la Farnesina, con questi personaggi bisogna comunque trattare, lo si dovrebbe fare a determinate condizioni – continua il sacerdote – in Eritrea, ad esempio, su cui Ginevra ha da poco pubblicato un’inchiesta sulla sistematica violazione dei diritti umani da parte del governo di Isaias Afewerki, la trattativa dovrebbe comportare la liberazione di tutti i prigionieri politici, l’attuazione della Costituzione bloccata dal 1997, la proclamazione di elezioni democratiche e il rispetto dei diritti basilari dei cittadini”.

Infine non è mancata, da parte dei presenti al convegno, la critica all’esportazione delle armi da parte del nostro paese, così come dei nostri rifiuti tossici, senza dimenticare le speculazioni politiche ed economiche, a partire dalle multinazionali, che distruggono e dividono un continente da sempre ricchissimo di bellezze e risorse. E’ così che li si vuole “aiutare a casa loro”? Se non è troppo tardi per pensare a un contributo positivo, conoscere le nostre responsabilità e la reale situazione di questi paesi è già un buon inizio, un impegno che le Acli hanno deciso di portare avanti. Perché, come scrive la poetessa africana Warsan Shire: “Nessuno lascia la propria casa a meno che / casa sua non siano le mandibole di uno squalo / Verso il confine ci corri solo / quando vedi tutta la città correre / i tuoi vicini che corrono più veloci di te / il fiato insanguinato nelle loro gole…”.

Anna Toro

Laureata in filosofia e giornalista professionista dal 2008, divide attualmente le sue attività giornalistiche tra Unimondo (con cui collabora dal 2012) e la redazione di Osservatorio Iraq, dove si occupa di Afghanistan, Golfo, musica e Med Generation. In passato ha lavorato per diverse testate locali nella sua Sardegna, occupandosi di cronaca, con una pausa di un anno a Londra dove ha conseguito un diploma postlaurea, sempre in giornalismo. Nel 2010 si trasferisce definitivamente a Roma, città che adora, pur col suo caos e le sue contraddizioni. Proprio dalla Capitale trae la maggior parte degli spunti per i suoi articoli su Unimondo, principalmente su tematiche sociali, ambientali e di genere. 

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