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Donne migranti: il coraggio invisibile
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Y., 30 anni, ha lasciato una Siria martoriata dalla guerra civile insieme ai suoi sei figli, per raggiungere il marito in Svizzera. Ha dovuto percorrere una delle rotte più battute dai migranti per raggiungere la Fortezza Europa, ma anche una tra le più pericolose: quella che passa per la Turchia e la Grecia, con l’attraversamento del super-monitorato fiume Evros, proprio al confine turco-greco. Y. non ha i documenti, e per attraversarlo è costretta a salire con i bambini in una piccola barca insieme ad altre 30 persone. Secondo il suo racconto, non passa molto che la bagnarola colma di migranti viene notata dalla guardia costiera greca che, nel tentativo di spaventarli e costringerli a fare dietro-front verso la Turchia, la sperona. Nel caos che scoppia in seguito, la figlia di Y., di soli 4 anni, cade in acqua. “Un poliziotto greco si è gettato in mare e l’ha salvata” spiega Y. Ad Amnesty International, ma l’enorme sollievo del salvataggio non porta con sé un lieto fine di tutta la vicenda. “Ci hanno portato all’isola di Agathonisi – continua la donna – dove siamo stati trattenuti per sette giorni. Era tutto incredibilmente sporco e umido, ma non c’erano docce e non ci hanno dato vestiti asciutti. Non ci hanno dato nemmeno cibo, solo acqua”.
Tutto questo succedeva nell’aprile del 2013, e non sappiamo se Y. sia infine riuscita ad attraversare le frontiere con i suoi figli, probabilmente no. Se abbia sperimentato le terribili carceri turche o greche, o se è ancora lì che aspetta il momento opportuno per rimettersi in viaggio e riprovare, magari ignara dei propri diritti, della possibilità della richiesta di asilo, o di un eventuale ricongiungimento familiare. In realtà non sappiamo molto altro di lei se non che un viaggio del genere è un’impresa pazzesca per un ragazzo da solo nel fiore della sua giovinezza, figuriamoci per una donna con i bambini al seguito. Perchè sebbene ogni giorno le cronache ci parlino di loro, di queste donne migranti dall’immenso coraggio, il più delle volte sono ridotte a dei meri numeri che ci fanno dimenticare le loro storie e le loro motivazioni. Ad esempio, nel barcone affondato nei pressi di Lampedusa (altra rotta dei migranti, la preferita dai nostri media) in quel funesto 3 ottobre 2013 in cui morirono 366 persone, le donne vittime del naufragio sono state più di 80, tra cui diverse donne incinte.
“Ce la fai perché ce la devi fare. Lo fai per te, ma soprattutto per il bambino che porti in grembo” raccontava Cynthia, allora ventiquattrenne al nono mese di gravidanza, ai giornalisti Alessandra Coppola e Alfio Sciacca in un memorabile servizio pubblicato sul Corriere nel maggio 2011. Cynthia aveva resistito in quelle condizioni a cinque giorni di traversata in mare, mostrando la disperazione, ma anche la forza di queste ragazze che arrivano da molto lontano, come Eritrea, Nigeria, Ghana, Mali, Sudan. Che attraversano i deserti, stipate nei camion dei trafficanti e facilitatori, con tutti i pericoli che ne conseguono. L’organizzazione Medici Senza Frontiere, ad esempio, non si stanca di denunciare le violenze sessuali che molte donne migranti subiscono durante il viaggio lungo le rotte migratorie, soprattutto in Marocco e nelle zone di frontiera, spesso infestate dalle reti criminali a caccia di vittime da immettere nel mercato della prostituzione in Europa, o ancora nei centri di detenzione. MSF parla di un fenomeno di “proporzioni allarmanti”. Eppure si accetta il rischio, perché anche per le donne stare ferme significa morire di fame o di guerra, o soffocate da un regime, o non poter garantire un futuro a se stesse e ai propri figli.
Una migrazione di segno femminile. A piedi, col barcone, in aereo o col bus, dal sud del mondo come dall’est, assistiamo infatti a una migrazione di segno “sempre più femminile”, anche perché ora sono soprattutto le donne che rispondono a determinati bisogni nei paesi occidentali, che riguardano maggiormente il settore della cura e del lavoro domestico. Vengono ad occuparsi dei nostri anziani e dei nostri malati indipendentemente dalla loro situazione familiare, così come dal loro titolo di studio o qualifica. Ma c’è anche chi riesce a mettersi in proprio, o a trovare un’occupazione alternativa agli stereotipi che conosciamo. Secondo una recente ricerca di Maria Parente pubblicata dal Cnel, “le donne, da diversi anni ormai, costituiscono più della metà della popolazione straniera regolarmente presente nel nostro paese”, mentre secondo i dati Istat del 2011, dal 2007 al 2011 le lavoratrici immigrate sono aumentate del 65,8%, rispetto al 39,8% degli uomini.
Eppure, se molte esperienze migratorie si concludono felicemente, l’arrivo in Europa e in Italia non è sempre garanzia della fine dei problemi, anzi. E non solo per il rischio, per i soggetti più sfortunati e vulnerabili, di finire nella rete della prostituzione, oppure nei Cie e infine espulse. Molte donne immigrate, infatti, oltre a convivere spesso con una serie di traumi, solitudine e sensi di colpa per ciò che si sono lasciate dietro, corrono il rischio di essere vittime di una “doppia discriminazione: etnica e di genere”. Per le lavoratrici domestiche, scrive ancora Maria Parente, uno dei pericoli maggiori è quello di essere condannate all’invisibilità, “confinate in un ambito strettamente privato, reso ancora più vulnerabile dalla eventuale assenza del permesso di soggiorno”. Per non parlare di tutta una serie di discriminazioni de jure e de facto che non permettono a queste donne di ottenere una protezione adeguata dalla violenza, dallo sfruttamento e dall’emarginazione, oltre a molteplici ostacoli giuridici e strutturali che impediscono loro l’accesso ai servizi essenziali come la sanità, l’istruzione, l’alloggio, l’assistenza legale e la protezione sul luogo di lavoro. Per questo i servizi territoriali e le associazioni spesso diventano indispensabili, anche per cercare di sopperire a un adeguamento legislativo complessivo che tuttora manca.
Spesso, infatti, ci si scorda che la scelta di emigrare di queste donne è indicativa della volontà di essere artefici del proprio futuro e di garantire una vita dignitosa per sé e per la propria famiglia. Una scelta connaturata all’essere umano, che nessun muro o flotta di respingimento potrà mai arrestare. E non si pensa agli effetti positivi e all’arricchimento per la società tutta portati da queste donne e madri che, se felicemente integrate, fungono da “collante sociale, facilitando l’integrazione delle comunità immigrate con quelle di accoglienza, rinsaldando, allo stesso tempo, l’identità culturale di provenienza”. Così, spesso vengono abbandonate al loro destino, in una terra straniera e spesso ostile. “L’immigrazione non è un fenomeno di genere neutro – si legge in un documento dell’ong Picum (Platform for International Cooperation on Undocumented Migrants) pubblicato dalle Nazioni Unite – l’integrazione di una prospettiva di genere è dunque indispensabile per l’analisi della posizione delle donne migranti e lo sviluppo di politiche volte a contrastare la discriminazione, lo sfruttamento e l’abuso”.