3 ottobre 2013, un anno dopo

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Il silenzio può essere un modo per ricordare, fare Memoria, ma serve anche a riflettere. A ridosso del 1° anniversario della tragedia del 3 ottobre 2013, avvenimento nel quale morirono quasi 400 persone imbarcate su una nave libica inabissatasi a poche miglia dalle coste dell’isola di Lampedusa, non si può non stare in silenzio per ricordare quanto accaduto e per riflettere circa le azioni e i fatti che quell’evento ha determinato.

Mi permetto di saltare a piè pari la cronaca della lunga processione di visite, più o meno guidate, sull’isola da parte delle autorità europee e italiane. Tutti espressero dolore per un lutto che riuscì ad avvolgere le coscienze della cittadinanza, non più soltanto italiana, ma europea ed internazionale. Ciò non di meno, quelle stesse personalità politiche, non hanno poi fatto seguire all’indignazione un’azione realmente capace di affrontare il problema partendo dalle sue radici. Anzi, lo schema di interpretazione del fenomeno migratorio utilizzato dai governi europei rimane sempre quello che ha generato il 3 ottobre 2013 e che tutt’oggi continua a generare morti su morti, lutti su lutti, per i quali oramai nessuno si indigna più perché, in fondo, ci stiamo tristemente abituando.

Purtroppo, l’Europa continua a governare (si fa per dire) il fenomeno migratorio con un approccio “Frontex-centrico” per il quale l’obiettivo da perseguire è la sicurezza dei cittadini comunitari attraverso il presidio delle frontiere e l’arresto dei trafficanti di uomini. La salvaguardia della vita umana e la tutela dei diritti umani sono tutt’ora obiettivi non perseguiti come priorità, anzi in taluni casi sono specificati come “effetti collaterali” delle attività previste dal mandato Frontex.

Mi spiego. Kristy Siegfried ha realizzato per IRIN una serie di interviste a diversi funzionari di organizzazioni che si occupano di rifugiati e migranti, che sembrano possano fare chiarezza sulla famigerata e strombazzata Operazione Frontex Plus che, in realtà, non esiste, quantomeno non nelle forme evolutive e migliorative lasciate immaginare, ad agosto di quest’anno, dal ministro degli Interni italiano Angelino Alfano, rispetto all’Operazione Mare Nostrum. Va detto che i dettagli di questa operazione sono stati vaghi fin da subito. Il 27 agosto 2014, l’allora Commissario UE per gli Affari Interni, Cecilia Malmström, dichiarò, infatti, che con Frontex Plus si sarebbe completato il lavoro iniziato dagli italiani, ma senza fare alcun riferimento ad obiettivi di “Search-and-Rescue”, vale a dire ricerca e salvataggio di persone in mare aperto che è di fatto, assieme all’arresto dei trafficanti internazionali di esseri umani, l’obiettivo principale dell’operazione Mare Nostrum.

Allora cos’è Frontex Plus? Niente di più e niente di meno che la fusione di due operazioni già esistenti a largo della coste italiane, in scadenza di mandato a fine settembre, che verranno fuse in una nuova operazione denominata “Triton”, il cui raggio d’azione sarà più amplio delle precedenti operazioni da cui è nata. L’obiettivo principale di questa nuova operazione sarà il controllo delle frontiere, mentre la ricerca e il salvataggio di persone in mare sarà solo un effetto collaterale di questa mission. Ciò significa che, se nel contesto delle attività previste dall’operazione Triton, dovesse essere individuata una barca in difficoltà, non si procederà all’immediato salvataggio, ma verranno autorizzate le autorità locali che si caricheranno dell’onere di prestare soccorso agli eventuali naufraghi.

Se questo scenario dovesse confermarsi, Frontex Plus risulterebbe una denominazione alquanto altisonante per un’operazione gattopardesca in salsa europea, dove il cambiamento non produce altro che il mantenimento dello status quo. Ma d’altra parte, va detto che un repentino cambio di direzione dell’UE riguardo le politiche migratorie sarebbe stato quanto meno schizofrenico, considerato che quasi tutti gli stati europei su scala nazionale stanno elaborando azioni di forte contenimento e filtraggio dei flussi migratori.

È il caso del recente accordo franco-britannico sottoscritto dal ministro degli Interni francese, Bernard Cazeneuve e dalla sua omologa britannica, Theresa May per combattere l’immigrazione illegale attraverso la Manica proveniente dal porto francese di Calais dove, secondo le autorità francesi, risiedono 1.500 persone, ritenute clandestine secondo l’ordinamento francese, che vorrebbero lasciare la Francia per raggiungere l’Inghilterra. Questo accordo prevede, per punti principali: a) la creazione di un fondo comune Francia-Regno Unito al quale quest’ultimo contribuirà con 15 milioni di euro in tre anni, utile a finanziare il potenziamento delle strutture di sicurezza (recinzioni metalliche e muri) del porto di Calais e per la protezione delle persone vulnerabili; b) cooperazione delle forze di polizia dei due paesi per combattere il traffico di esseri umani; c) la modifica del porto di Calais al fine di facilitarne il controllo; d) l’avvio di campagne di informazione rivolte ai migranti, affinchè vengano avvisati sul rischio che comporta la traversata non in sicurezza del Canale della Manica; e) miglioramento delle prestazioni umanitarie e sanitarie per i migranti e un’accoglienza diurna per i soggetti più vulnerabili.

A parte l’ultimo punto, questo accordo bilaterale fa trasparire la netta volontà da parte di Francia e Gran Bretagna di rafforzare in modo massiccio la politica di sicurezza delle frontiere, così come in Bulgaria dove sono state erette delle recinzioni sul confine turco al fine di impedire l’accesso ai profughi siriani, in Grecia dove la Guardia Costiera nazionale è stata accusata di spingere le imbarcazioni con a bordo migranti verso le acque territoriali della Turchia, in Spagna con la polizia che spara proiettili di gomma a coloro che cercano di entrare nel suo territorio provenendo dal Marocco.

Alla luce di tutto ciò, a cosa è dunque servito il grido di dolore e di sdegno lanciato dalla comunità internazionale dopo l’evento terribile del 3 ottobre 2013? A cosa sono serviti i continui appelli e i gesti inequivocabili di Papa Francesco? L’Europa in realtà si sta dimostrando ipocrita e, in malcelato modo, maschera l’assenza di una strategia chiara e univoca circa le politiche migratorie. Appare assurdo infatti l’inasprimento delle misure di controllo delle frontiere quando, a causa delle recenti crisi internazionali, i migranti sono per grandissima parte profughi in fuga da paesi in guerra.

Il ministero degli Interni italiano ha dichiarato che tra gennaio ed agosto siriani ed eritrei hanno coperto quasi il 50% degli arrivi di migranti in Italia. Considerato che agli eritrei, una volta giunti sani e salvi sul suolo italiano, nel 90% dei casi viene concesso il riconoscimento giuridico di rifugiato e che per i siriani dovrebbe valere lo stesso discorso, dato che fuggono da un paese straziato dalla violenza delle milizie governative di Assad e dei tagliateste dell’ISIS, l’Italia e l’Europa non dovrebbero affidarsi alle operazioni Triton e Mare Nostrum, ma creare dei corridoi umanitari per salvare tutte le persone provenienti da questi paesi. In questo modo, verrebbero spesi molti meno soldi per finanziare la costosissima Mare Nostrum (11,5 milioni di dollari al mese), si ridurrebbero drasticamente il numero di morti in mare, un maggiore controllo in fase di imbarco sicuro dei profughi e, infine, si infliggerebbe un pesante colpo al traffico internazionale di esseri umani, che non avrebbero quasi più nessuno da trasportare attraverso il Mediterraneo illegalmente e, soprattutto, pericolosamente.

Questa sarebbe, probabilmente, la soluzione strategicamente più corretta per conciliare sia il dovere di salvaguardare la vita e i diritti umani di chi lascia la propria casa e il proprio paese a causa di guerra e povertà, sia il diritto degli stati che accolgono queste persone di tutelare la sicurezza dei propri cittadini.

Tuttavia, vi è un grande problema e cioè il regolamento “Dublino II”, il quale stabilisce che lo Stato membro dell’UE competente per l’esame di una domanda d’asilo da parte del richiedente sia quello dove per prima si viene identificati. Questo determina, ad esempio in Italia, il tentativo di non fornire le proprie generalità nel momento in cui si arriva sul suolo italiano non perché, come erroneamente si ritiene, si voglia nascondere l’identità per poi darsi alla macchia e delinquere, ma perché sono molti di più i migranti che giunti nel nostro paese intendono poi chiedere asilo in un secondo paese membro dell’UE. Ma questa libertà è negata automaticamente nel momento in cui le autorità italiane, legittimamente, identificano il migrante. Da questa perversione burocratica nasce poi il fenomeno della clandestinità dei migranti, ai quali però non si può di certo rimproverare nulla dato che, in fondo, chiedono soltanto il diritto di poter scegliere il paese in cui restare. Va da sè che questo problema è condiviso, in particolar modo, dai paesi che costituiscono la cintura meridionale dell’UE più velocemente raggiungibili via mare o terra, vale a dire, principalmente, Italia, Spagna e Grecia.

In conclusione, un anno dopo il 3 ottobre 2013 la situazione è molto critica. L’insicurezza e l’ipocrisia dei stati europei moltiplica le morti di innocenti e, soprattutto, per assurdo, non modifica in meglio le condizioni di sicurezza delle loro frontiere, pur spendendo vagonate di milioni di euro che potrebbero essere spesi in misura minore e in modo più saggio se si decidesse di affrontare, insieme, e con strategie di inclusione l’arrivo dei profughi sul territorio europeo.

Manca in tal senso la funzione dei principali organi di informazione europei i quali sostengono implicitamente l’approccio Frontex-centrico, scelto dai paesi membri dell’UE e dalle stesse istituzioni comunitarie, salvo uscire con titoli di grido ogni qualvolta vi sono episodi tragici come quello di un anno fa. Senza l’apporto responsabile di chi cura l’informazione, l’orientamento dell’opinione pubblica sarà fortemente deformato e deviato su una lettura del fenomeno migratorio assolutamente non corrispondente alla realtà.

Per questo motivo, è necessaria la promozione di eventi e di momenti di confronto collettivi di respiro nazionale ed internazionale nei quali si affronti questo delicato tema cum grano salis. In tal senso, ci si augura che Sabir, il Festival diffuso delle culture mediterranee, che si sta tenendo a Lampedusa dal 1° al 5 ottobre, promosso da Arci, Comitato 3 ottobre e Comune di Lampedusa, vada in questa direzione. C’è un forte bisogno di creare una comunità trasversale di persone che porti la politica e il sistema dell’informazione a compiere un atto di coraggio, affermando che sicurezza e salvaguardia della vita umana non sono diritti in contrapposizione, ma anzi il loro contemporaneo perseguimento è un’evoluzione virtuosa dei regimi democratici nei quali viviamo, in particolar modo oggi, considerato che per uscire dalla crisi bisogna proporre nuovi modelli di vita associata e di sviluppo e non ostinarsi a mantenere una struttura che è già collassata, spendendo risorse che potrebbero essere utilizzate per ridurre le disuguaglianze e le iniquità.

Pasquale Mormile

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