Cinesi in Italia: quando le distanze si accorciano

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Ormai siamo abituati a vederli in classe, o all’uscita di scuola, con tanto di pesante accento romano, milanese, o toscano, li vediamo giocare, litigare, perfino flirtare con i loro coetanei italiani, l’unica differenza i lineamenti del viso, per il resto semplicemente bambini e ragazzi come tutti. Quello di cui non sappiamo quasi niente è cosa succede una volta tornati a casa, inghiottiti in quella dimensione quasi parallela che sono le comunità cinesi in Italia, tutte votate al lavoro e al commercio, con le loro abitudini, lingua e tradizioni di cui in genere comprendiamo ben poco. E si sa che spesso ciò che non si comprende genera paura e diffidenza. “Non pagano le tasse, non si vogliono integrare, sono chiusi”, oppure “ci vogliono invadere con i loro negozi, e tu hai mai visto un loro funerale?” sono solo alcuni dei pregiudizi e degli stereotipi che sentiamo – o noi stessi pensiamo – quando si parla di loro. Qualcosa però sta cambiando e la molla del cambiamento arriva anche dai cinesi stessi, soprattutto da quelle cosiddette seconde generazioni di coloro che sono nati o vissuti qui e che, come tutti i giovani, hanno voglia di essere protagonisti della realtà in cui sono immersi, di raccontare e di raccontarsi.

L’incontro avvenuto a Roma martedì 14 e promosso dall’associazione Piùculture insieme al Coris de La Sapienza è un esempio di questo percorso intrapreso alla ricerca di un dialogo e della comprensione reciproca. “Una delle barriere più forti è sempre stata quella linguistica – racconta Ji Yuan, responsabile cinese dell’Aula radiofonica Confucio Cri-Uni-Italia – i migranti di prima generazione, impegnati a lavorare e a costruirsi la stabilità economica con grandi sacrifici, non hanno mai imparato l’italiano, per noi difficilissimo, in pratica un altro sistema”. In cinese, ad esempio, non esistono maschile e femminile, singolare e plurale, la coniugazione dei verbi per tempo, modo, persona e numero, ma il significato dei termini varia a seconda dei toni con cui vengono pronunciati, per non parlare degli ideogrammi. A questo si aggiunge la tradizionale riservatezza: “Più che chiusi i cinesi sono poco loquaci, osservano e riflettono. A sottolinearlo abbiamo anche tanti proverbi frutto della saggezza dei nostri antenati, per noi fondamentale”.

Cosa succede allora con i ragazzi che invece sono nati qui? “Per loro spesso c’è una difficoltà al contrario, ovvero a comunicare con i propri genitori, anche a livello linguistico” spiega Jiang Zhonghua che, arrivata in Italia 15 anni fa, ha deciso di aprire una scuola di lingua e cultura cinese nel cuore dell’Esquilino, frequentata anche da tanti ragazzi cinesi che vogliono riappropriarsi delle loro radici. “Più che un corso di lingua è un recupero della nostra cultura” afferma la studentessa cinese Sisi, che non nasconde le difficoltà, le crisi di identità ma anche le opportunità date da questo dualismo. Lei si considera italiana e cinese e studia per diventare interprete, ovvero un ponte tra le due culture. Che è anche il ruolo naturale dei ragazzi delle seconde generazioni, basti pensare alla scuola, al momento dei colloqui, o degli incontri genitori-insegnanti. “I genitori cinesi vengono poco a scuola, forse perché quando usano il bambino come mediatore i ruoli si capovolgono – spiega Amalia Ghisani, presidente di Piùculture – ma non devono essere esclusi, il rischio è che proprio dalla scuola parta la separazione tra i due mondi”.

Se la scuola è un ambiente comunque favorevole e già predisposto a questo tipo di percorso, è nel lavoro invece che le barriere si fanno quasi insormontabili. “Quando pensiamo al moloch cinese i nostri sentimenti oscillano tra la paura, l'ammirazione e lo sgomento – continua Ghisani – basti pensare ai capannoni di Prato, le 14 ore di lavoro, i diritti assenti, la gente che muore, lo sfruttamento minorile, e tutto questo ci fa paura. Poi però pensiamo alle 43mila imprese e ai loro investimenti nel nostro paese (che implicano un processo migratorio lungo e quindi una maggiore possibilità di integrazione), pensiamo al velocissimo sviluppo e globalizzazione che sta vivendo la Cina. E qui scatta l’ammirazione”. I cinesi, infatti, rappresentano la terza comunità di immigrati in Italia, dopo quella marocchina e albanese. Con una composizione di genere equilibrata (51% uomini e 49% donne) e un’età media di circa 28 anni, il loro tasso di occupazione è di 12 punti più alto rispetto a quello delle altre comunità, e sono impegnati soprattutto nel settore del commercio. Provenienti quasi tutti dalla regione dello Zhejiang, si sono insediati più che altro nel Nord Italia, in Lombardia (21,5%), Veneto (13,3%) e Toscana (19,4%), mentre le città più interessate sono, in ordine, Milano, Prato, e Roma, in cui si hanno delle concentrazioni in determinate zone. Il modello economico è quello dell’imprenditoria familiare e per cominciare l’attività in genere si appoggiano a prestiti concessi da parenti o conoscenti che si trovano in patria o all’estero, mentre l’utilizzo delle banche è molto raro (in questo modo evitano anche gli interessi).

“A Milano ci sono ben 1000 ristoranti gestiti da cinesi, mentre a Prato si ha una prevalenza del settore tessile, e si lavora di notte perché i capi confezionati vanno spediti la mattina presto. Questo genera un quadro molto chiuso, e conseguenti conflitti con i locali” spiega Dixi Yang, avvocato e responsabile del gruppo giovanile Comitato di rappresentanza cinese in Italia, che racconta però le iniziative di integrazione e interazione messe a punto dalla comunità cinese, dalle donazioni di sangue a quelle di abiti insieme alla comunità S. Egidio, fino alle nuove tecnologie e i social network. In cui i media e la comunicazione diventano essenziali.

“Attenzione però a non dividere troppo tra media per i cinesi e media per italiani – ammonisce il ricercatore del Coris Marco Bruno – il rischio è infatti quello di lavorare su ambienti comunicativi differenti, e allora i nostri media, che spesso e volentieri veicolano pregiudizi, non vengono intaccati”. Sorridono i cinesi, ad esempio, sulla leggenda metropolitana degli anziani che ‘non muoiono mai’. “Semplicemente per trascorrere i loro ultimi giorni tornano nel loro paese, al quale restano profondamente attaccati” raccontano. Ma questo è uno degli stereotipi più sciocchi e, se vogliamo, quasi innocui. Perciò il consiglio che il Coris dà alla comunità cinese è di farsi fonte anche rispetto ai giornalisti i quali, “potrebbero avere un altro lato o uno sguardo più ampio della storia”, anche in vicende tragiche come i roghi nei capannoni o i casi di sfruttamento e di irregolarità fiscali e finanziarie. Perché anche in quel campo si sta lavorando per migliorare, con l’emersione e la messa in regola di sempre più attività. E se la percezione rimane spesso negativa, un cammino positivo è iniziato – difficile, pieno di contraddizioni, ma inevitabile. Parte ovviamente dai ragazzi, da quegli “italiani con facce cinesi” cresciuti a cavallo di più culture che, cercando di prendere il meglio da entrambe, non hanno più intenzione di starsene in disparte.

Anna Toro

Laureata in filosofia e giornalista professionista dal 2008, divide attualmente le sue attività giornalistiche tra Unimondo (con cui collabora dal 2012) e la redazione di Osservatorio Iraq, dove si occupa di Afghanistan, Golfo, musica e Med Generation. In passato ha lavorato per diverse testate locali nella sua Sardegna, occupandosi di cronaca, con una pausa di un anno a Londra dove ha conseguito un diploma postlaurea, sempre in giornalismo. Nel 2010 si trasferisce definitivamente a Roma, città che adora, pur col suo caos e le sue contraddizioni. Proprio dalla Capitale trae la maggior parte degli spunti per i suoi articoli su Unimondo, principalmente su tematiche sociali, ambientali e di genere. 

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