Rinascimento cinese

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Mentre ognuno andava al proprio lavoro o si alzava per iniziare un’altra settimana, in Cina un uomo è stato giustiziato. È successo lo scorso il 9 febbraio, quando il magnate minerario Liu Han ha subito la condanna sancita a maggio del 2014. Molte accuse a suo carico: omicidio (pluri), corruzione, costituzione di un’organizzazione mafiosa. Insomma non era un uomo innocente al cospetto della legge. Al di là dell’accaduto – che fa ribollire il sangue sia che si guardi con gli occhi di cittadino, di vittima o di giustiziere – la riflessione che mi ha stimolato è stata sulla differente portata del termine “legge” a seconda della cultura che esso incontra, e sulla capacità di comprendere se stessi attraverso un sistema di giustizia altrui. 

La legge in Cina. Un concetto che esiste fin dall’antichità, ma declinato in altre salse rispetto all’evoluzione che ha avuto nella “nostra” tradizione occidentale. Essendo quella cinese una civiltà sviluppatasi in modo autonomo dal resto del mondo fino a 170 anni fa – prima guerra dell’oppio –, va da se che anche il significato di “legge” custodisce tutto un altro pensato rispetto al nostro. Esso ha avuto un’evoluzione storica, un’interpretazione culturale, una dialettica filosofica e un adattamento sociale che differisce dalla consapevolezza che noi abbiamo acquisito dinanzi alla semantica di questa parola.

La Cina è governata dalla legge? La risposta è articolata. Innanzitutto il governo è in mano a un Partito unico il quale non prevede la separazione dei poteri – al contrario del nostro sistema –. È una Repubblica Popolare che costituzionalmente garantisce i diritti, ma che allo stesso tempo legittima ogni decisione al vertice di un sistema di governo piramidale. È una macchina burocratica che necessita di una Commissione centrale per le ispezioni disciplinari per vigilare sulle norme e sull’etica del Partito, dei suoi iscritti e di quelli in procinto di esserlo. Quest’ultima, parlando di giustizia, è un organo fondamentale che viene eletto dall’Assemblea nazionale – una riunione di tutti gli organi del Partito –.

Nonostante questo sistema blindato, sinonimo di un approccio poco liberalista, la Cina sta influenzando le relazioni mondiali e instaurando rapporti con tutte le nazioni del pianeta. Insomma, il suo carisma sta scrivendo la storia mostrandoci che, al di là delle opinioni, altri modelli politici e sociali “vincenti” sono effettivamente possibili.

Per quando sia insolito citarli preferendo puntare il dito su ciò che non va, i cambiamenti a Pechino ci sono, vengono discussi e presi in considerazione. Parlando di “legge” appunto, nel mese di ottobre dell’anno scoro, l’argomento dell’ultimo Plenum di Partito – un’assemblea degli esponenti che governano il paese – è stato lo “stato di diritto”. Un concetto integrato nel testo costituzionale – dunque nell’ideologia di governo – nel 1999, ma che per la prima volta ha avuto un’attenzione che è andata oltre la mera dialettica filosofica. In altre parole c’è stata la volontà della leadership del Partito d’interpretarlo come una possibile tecnica per governare l’esercizio del potere pubblico.

“Il governo della legge” è una concezione occidentale che non ha nessuna radice nella tradizione giuridica cinese. La sua comprensione e di conseguenza la sua implementazione, non è immediata per la civiltà millenaria d’Oriente. Certamente che i problemi della sua interpretazione prima e dei suoi effetti poi, saranno inevitabili e impediranno il pieno sviluppo di un sistema costituzionale e di governo come noi vorremo, o ci aspetteremo.

“Yifa zhiguo” è la traduzione di “stato di diritto” e anche questo come altri termini deve e dovrà essere letto con caratteristiche cinesi. Guardando ai fatti la Repubblica Popolare è piena di contraddizioni in termini di diritti violati e concessi. Il vero problema non è la legge in se, ma come viene o non viene applicata – un problema comune anche per alcune democrazie –. 

La mia riflessione però vuole andare oltre il giudizio e aprire la mente sulla ricchezza che oggi la Cina offre: la sua conoscenza è un confronto senza precedenti con qualcosa di sconosciuto. È una relazione che se instaurata permette di comprendere se stessi per arrivare il più vicino possibile ad una visione del mondo unitaria, fatta dal loro e dal nostro pensato.

I tempi della Cina non sono i nostri e un cambiamento nel linguaggio ufficiale è un punto di partenza per altri mutamenti. È necessario calarsi nel pensiero cinese, conoscerlo nella sua essenza e successivamente addentrarsi nella storia. Solo così ci si avvicina quanto più possibile a comprendere un presente che, come scrive lo scrittore Yu Hua, ha appena visto fare in 40 anni quello che l’Europa ha fatto in 400.

Non so come Confucio avrebbe interpretato “Yifa zhiguo”. Nel film che narra la sua storia, preso dallo sconforto di aver fallito come consigliere del Re nonostante abbia agito in virtù dell’onestà e della benevolenza, incontra il Maestro taoista Lao Zi. In questi piacevoli fotogrammi, egli chiede consiglio al saggio del Tao il quale, avvolto in un’aurea speciale, gli dona poche e semplici parole: suggerisce a Confucio di non soffrire dell’incomprensione altrui se pretende di cambiare il mondo. Se si vuol far mutare qualcosa o qualcuno, insegna il padre taoista, ci si scontra con quello che apparentemente non ci comprende ma che nemmeno noi comprendiamo. Dunque l’incomprensione è inevitabile. La vera crescita non sta nel giudicarla, ma nel superarla riconoscendo la scarsa capacità di capire che l’uomo ha davanti ad una qualsiasi diversità. Comprendendola, prendendola con se, poi questa alterità diventerà parte di noi. Completerà il punto dal quale osserveremo le stesse cose di prima che – magicamente – appariranno diverse.

Non vi è dubbio che la supremazia culturale occidentale ha voluto cambiare il mondo a sua immagine e somiglianza. Oggi la Cina sta abbracciando la sua tradizione millenaria senza pretendere di cambiare la nostra. Sta adattando il suo passato ai cambiamenti dell’ultimo secolo e in questa fase non esige la comprensione di tutti come voleva inizialmente Confucio, ma sta mutando se stessa come i taoisti prima e Confucio poi hanno scelto di fare. L’Occidente dovrebbe vedere in questa “incomprensione” un paese che sta cercando un’identità attraverso un rinascimento che, restando ancorato alla propria tradizione, combina ideologia marxista-maoista e libero mercato, mettendo in discussione quello che fino a ieri abbiamo ritenuto universalmente impossibile.

Francesca Bottari

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