La Cina continua a muoversi verso le città

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“All’interno di un sistema socialista non esiste una classe che trama esplicitamente per preservare delle relazioni economiche ormai superate dagli eventi”. Se per Mao Zedong questa affermazione era corretta e condivisibile, nei primi anni Sessanta il Presidente del Partito Comunista Cinese nelle sue note di critica all’economia sovietica aggiungeva “Ma in una società socialista ci sono ancora degli strati conservatori e qualcosa come dei ‘gruppi di interesse’. Permangono ancora differenze tra lavoro intellettuale e manuale, tra città e campagna, tra operai e contadini. Sebbene non si tratti di antagonismi in contraddizione, essi non possono essere risolti senza lottare”.

Ancora oggi il gap esistente tra cinesi delle campagne e delle città rappresenta uno dei problemi di più difficile soluzione della Cina moderna; una realtà che sembra avere le sue radici proprio nell’era di Mao. A dispetto dell’intento del leader comunista di eliminare il divario tra il lavoratore cittadino e il contadino, la sua politica fallì finendo per ampliare il divario tra città e campagna, di solito a scapito degli abitanti di quest’ultima. Strumento per eccellenza ideato da Mao nel 1958 per gestire la politica demografica del Paese fu l’hukou, il sistema di registrazione familiare già esistente in Cina che fu però piegato all’esigenza di controllo della mobilità della popolazione sul territorio, imponendo un ancoraggio al luogo di nascita. Come? In base ai dati registrati sull’hukou, i contadini che optavano per migrare in città in cerca di un lavoro differente da quello agrario erano esclusi dal sistema di welfare sociale in tutte le aree urbane, dalla scuola per i figli all’accesso ai servizi sanitari, dalla concessione della casa alla pensione. Un sistema che scoraggiava, se non impediva, il movimento e di fatto determinava una restrizione al godimento dei diritti dei cittadini per gli abitanti delle zone rurali, con questi ultimi relegati in una sorta di sottoclasse ed esclusi da numerosi benefici sociali, economici e culturali erogati ad esclusivo appannaggio degli abitanti delle città.

Lo scorso agosto i dirigenti cinesi hanno deciso di abrogare le disposizioni repressive legate al sistema hukou constatando che, se queste erano state ideate in origine per depotenziare adunanze e possibili sollevazioni popolari, oggi esse sono essenzialmente una fonte di ingiustizia sociale che muove un forte malcontento popolare; tanto più che lo spostamento negli ultimi decenni di circa 400 milioni di cittadini delle zone rurali è stato imposto dallo Stato centrale. Tuttavia la cancellazione dell’hukou non potrà che essere progressiva, nel senso che gli spostamenti dalle campagne saranno indirizzati verso le nuove città medie e piccole, bloccando invece il flusso verso le enormi metropoli di Pechino o Shanghai dove si calcola che si trasferisca già mezzo milione di persone ogni anno. La gradualità del provvedimento mira inoltre a recuperare i fondi necessari per finanziare il welfare anche a quei milioni di migranti a cui sinora esso era stato negato. Che si tratti dunque di una manovra predisposta a tavolino per depotenziare ancora una volta il malcontento che iniziava a serpeggiare tra le masse dei migranti nelle città, ai margini della società e privi di diritti, e proseguire (se non rafforzare) la politica di trasferimento guidato e organizzato della popolazione verso i centri urbani?

Dal 1978 le politiche di crescente urbanizzazione volute da Pechino hanno visto un aumento di cittadini nei grandi centri urbani da una percentuale sotto il 30% negli anni Novanta all’attuale 54% e con prospettive nel prossimo ventennio di superamento del 70%. L'urbanizzazione è stata infatti adottata come intervento strutturale per arricchire i contadini e per dare soluzione a “tutti i mali del Paese”: ossia da un lato al reimpiego del surplus di manodopera rurale nelle città con sviluppo dell'occupazione nel settore secondario e nel terziario, dall’altro all’aumento della produttività e del reddito agricolo.

Non è la prima volta che Pechino interviene ad alterare la distribuzione della popolazione sul territorio: i problemi di oggi sono il frutto di decenni di strategie diverse che hanno mirato a gestire processi di urbanizzazione o di massiccio spostamento verso le campagne, a seconda delle esigenze dello Stato centrale. La fase di rapida urbanizzazione che dal 1978 si protrae fino ad oggi, correlata anche al passaggio a un’economia di mercato, è riuscita a mascherare la forte disoccupazione che interessa le zone rurali e che nel 1982 era stimata a 60 milioni di contadini. Nell’interventismo dello Stato centrale negli equilibri demografici della Cina rientra anche la cosiddetta “politica del figlio unico”, attuata per legge dal 1979 per determinare un forte controllo delle nascite in direzione di un loro contenimento, è stata abolita recentemente, nel dicembre 2013, a seguito della valutazione del terribile squilibrio che si era venuto a creare tra il numero dei maschi e delle femmine del Paese. Anche il problema del progressivo invecchiamento della popolazione e l’insoluta questione del sostentamento della classe più anziana e improduttiva iniziano a fare capolino tra i problemi di più urgente soluzione.

Di certo in un Paese così ampio, diseguale dal punto di vista geografico e di complessa gestione, ogni provvedimento di ordine sociale e politico, anche il più piccolo, può avere ripercussioni enormi e imprevedibili. Una ragione che induce a guardare con profonda apprensione alle politiche di gestione demografica che la Cina sta mettendo in atto da decenni, “giochi pericolosi” per gli equilibri non solo demografici, ma economici e politici dell’intero globo.

Miriam Rossi

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