www.unimondo.org/Guide/Salute/Salute-mentale/Lavoro-e-identita-e-qui-il-nostro-posto-223272
Lavoro e identità, è qui il nostro posto?
Salute mentale
Stampa

Immagine: Unsplash.com
Parlare di lavoro significa parlare di se stessi, dei propri valori, delle proprie competenze, del modo di stare al mondo e di guardarlo che ci caratterizza, delle relazioni che ci legano agli altri. In un percorso di formazione rivolto agli insegnanti e pensato all’interno della World Social Agenda come momento di riflessione sui temi dell’Agenda 2030 relativi all’impiego dignitoso e alle visioni di futuro connesse, un passaggio sugli aspetti più personali di quelle attività che occupano gran parte del nostro tempo adulto non poteva mancare.
In questo snodo strategico per la condivisione di prospettive e letture ci aiuta questa volta Domenico Barrilà, psicoterapeuta e analista, impegnato da anni nell'attività clinica e contemporaneamente nella scrittura, con particolare attenzione alla prevenzione del disagio e alla responsabilità sociale della psicologia. Un coinvolgimento, in questo anno di attività sul tema del lavoro, fortemente voluto da Piergiorgio Cattani, direttore di Unimondo venuto purtroppo a mancare un paio di mesi fa e giornalista che, durante la sua vita lavorativa, è stato sempre molto attento ai temi dell’inclusione e ha ricercato costantemente occasioni di approfondimento e riflessione non banali.
Anche questa volta Piergiorgio ci aveva visto giusto nel chiedere il supporto di Barrilà. Che infatti entra subito nel vivo della questione: ogni volta che l’uomo e il lavoro si incontrano modellano l’ambiente, ma anche la psiche della persona. Ecco perché quando si “tocca” il lavoro si tocca l’uomo, e viceversa. Ed è un incontro che ha conseguenze profonde sul sistema “dei significati esistenziali, delle cose e della percezione delle cose” (Burgalassi), particolarmente evidente negli ultimi mesi con un massiccio aumento del lavoro a distanza, non solo un intervento logistico-organizzativo, ma un modo di lavorare che influenza la struttura profonda della personalità.
Perché cambiano gli ingredienti con i quali si costruisce la nostra personalità, che sono fondamentalmente tre: la costituzione ereditaria; le impressioni soggettive e l’ambiente. Quest’ultimo nella triade è “azionista di maggioranza” e con il lavoro a distanza perde la sua parte tridimensionale. Il lavoro, che è sempre stato frutto di contatto e sfregamento, con le persone e con le cose, diventa bidimensionale. Il lavoro però è compito vitale e insieme ad amore e amicizia costituisce uno dei cespi attraverso i quali si estrinseca la nostra natura corale. È fondamentale perché consente di perseguire alcuni obiettivi apparentemente banali, ma di fatto alla base della nostra vita: cercare sicurezza, cercare di contare qualcosa per qualcuno, essere chiamati per nome.
Un bisogno che si radica nella nostra storia più antica, quando l’uomo da raccoglitore solitario e vegetariano è diventato cacciatore. Per ottenere la carne occorre un lavoro di squadra, quando si caccia occorre relazionarsi con il gruppo, sfruttarne le potenzialità e organizzarle raffinando sempre più questo processo, che prende una svolta decisiva con la scoperta che per produrre e conservare correttamente occorre estendere la collaborazione con gli estranei. È così che si passa dal lavoro inteso come azione individuale a quello inteso come azione corale: ed è un passaggio che dà qualche risposta al nostro senso di inadeguatezza come specie, tutto sommato fragile e debole. La compensazione “geniale” della cooperazione generata dal lavoro ha permesso una serie di scambi che ci hanno indotti alle relazioni e a sviluppare anche la compassione, quel “sentimento sociale” che Adler definisce “il barometro della normalità”.
Nessuno però coopera se non può beneficiare dei frutti della cooperazione: se non ne beneficia diventa tossina per se stesso, perché la sofferenza logora, e per gli altri, perché chi soffre perde di vista il bene comune. E purtroppo il lavoro porta in sé semi degenerativi, legati non solo all’uomo, ma al tempo stesso della sua evoluzione.
È stata una società lenta a portarci dove siamo arrivati. L’accelerazione di cui siamo contemporaneamente testimoni vittime e artefici negli ultimi decenni incrocia pesantemente il tema della sostenibilità, ambientale ma anche interiore. Il rapporto tempo/eventi è drasticamente mutato: nella nostra scala il tempo è un contenitore fisso e l’accelerazione che abbiamo impresso alla nostra vita ha un costo energetico (per noi e per l’ambiente) e richiede maggiore vigilanza, dunque maggiore stress. Noi non siamo fatti per sostenere questa accelerazione e questo tipo di strappo – per questo spesso ci viene in soccorso la chimica o spese prima impensabili in “prodotti e servizi per rilassarci” (si pensi che solo in Francia mediamente ogni anno vengono consumate 60 milioni di scatole di antidepressivi). Abbiamo plasmato una società dove la parola d’ordine è “vincente” e non sappiamo più come tollerare l’insuccesso, eppure questo è l’elemento più probabile quando c’è un impegno. La maggior parte delle volte non va come vorremmo. Siamo vittime della geometria Euclidea, dice Barrilà, ovvero di quella misura di forme perfette costruite da noi ma di fatto inesistenti. Molto più affascinante è la geometria dei frattali, che porta in luce quanto siamo imperfetti, quanto la natura sia rugosa e costituita da forme non convenzionali. Dimostrazione ne è il fatto che l’insuccesso, anche se sbandierato da ammiccanti vademecum manageriali come compagno necessario e benvenuto sulla strada che porta al raggiungimento dei propri obiettivi, quando si viene a patti con la realtà dei luoghi di lavoro delle persone comuni è ancora stigmatizzato; è qualcosa di esteticamente produttivo di cui parlare, ma di cui non si è ancora in grado di accettare le sfumature; si passa in fretta dai vertici agli scantinati, perché quello che conta è solo e ancora il risultato.
Certo è che il tema del lavoro vada affrontato assieme a una riconsiderazione della dimensione temporale: occorre tempo per crescere, per evolversi, per digerire le sconfitte, per imparare, per tessere relazioni. La sfida – più che mai aperta – con cui Barrilà ci lascia è dunque una: non si tratta di discutere su quale sarà il futuro del lavoro ma su quale futuro, al lavoro, si voglia dare noi.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.