www.unimondo.org/Guide/Salute/Salute-mentale/Albania.-Elargire-carezze-244076
Albania. Elargire carezze
Salute mentale
Stampa

Foto: M. Canapini
Nell’aprile 2019, seguendo le principali rotte dei migranti/profughi lungo i confini d’Europa, ho trascorso a intermittenza una decina di giorni in Albania. Condivido un estratto di quel racconto corale, raccolto tra valichi montuosi e paesi “di frontiera”.
E’ il paese dove non si muore mai. Fortificati da interminabili ore passate a tavola, annaffiati dal Raki, disinfettati dal peperoncino delle immancabili olive untuose, qui i corpi raggiungono una robustezza che sfida tutte le prove. Siamo in Albania, qui non si scherza. Dopo anni ritorno nella “Terra delle Aquile” grazie anche alle parole della scrittrice albanese (naturalizzata francese) Ornela Vorpsi, tratte dall’introduzione del suo libro “Il paese dove non si muore mai”. Chiudo il tascabile a pagina 28, mentre il traghetto geme, approdando nel porto di Durazzo. Le zolle farinose bevono senza riserve: è il primo giorno di pioggia dopo un mese di siccità. Nello spirito ritrovo l’Albania caotica, coi venditori di banane, gli zingari scalzi, i treni inesistenti; nell’architettura fiuto uno slancio d’avanguardia, globalizzante. Ad aspettarmi in un cortiletto in via Ruga Don Bosco trovo Ariela Mitri, responsabile Caritas del settore traffico esseri umani e migrazioni. Piglio risoluto, italiano perfetto, accoglienza materna: “La rotta balcanica è battuta giornalmente. Anziché passare in Macedonia deviano verso nord-ovest. Il fronte d’ingresso è l’Albania meridionale, quello di uscita l’Albania settentrionale. Chi non tenta la strada impervia delle montagne kosovare si concentra nella zona di Scutari, a nord. Sarà perché il ricordo del nostro esodo è ancora fresco, sarà perché abbiamo vissuto in prima linea la guerra in Kosovo, ma in merito ai migranti l’Albania non soffre le pressioni dell’opinione pubblica. Siamo più propensi alla solidarietà. I poliziotti stessi, in frontiera, si rendono utili pulendo i gabinetti o condividendo del cibo coi clandestini. Se ne parla poco, ma l’aiuto è tanto. Abbiamo stanziato soldi per gestire e innovare le strutture d’accoglienza, poiché la Caritas c’era al tempo del regime di Hoxha, c’era durante la guerra civile e c’è ancora oggi, in un momento epocale in cui l’altro è nostro fratello. Qualche famiglia comincia pure a fermarsi… Nonostante le difficoltà socioeconomiche ipotizza di costruirsi una nuova vita a Tirana, Valona o altrove. Nel 2017, secondo l’ultimo report pubblicato dalla Commissione, in Albania hanno presentato domanda di asilo politico 309 migranti, dato in leggera crescita rispetto all’anno precedente”.
Bucando folate di grecale, in serata siamo già a Scutari. All’orizzonte si ergono montagne innevate, culla primigenia del Kanun, il Codice dell’Onore di Lekё Dukagjini. La Panda 4x4 di Christian, operatore Caritas dallo sguardo fiero, borbotta davanti al cancello del Villaggio della Pace, una ventina di bungalow accoglienti che fungono da foresteria. Pini neri e pini d’Aleppo dominano il lago, il quartiere rom sottostante, la moschea immacolata. “Questo centro d’accoglienza, un tempo abitato dai rifugiati kosovari, oggi ospita afgani, siriani, iracheni. Lo ha allestito la Caritas negli anni Novanta, io ero appenato nato. - racconta Christian - So che le ultime famiglie in transito sono partite cinque giorni fa, erano state fermate a pochi chilometri da Scutari. Alcuni, nonostante le brochure che gli vengono consegnate dalla polizia, non chiedono asilo; altri, più favorevoli, devono eventualmente attendere nei centri temporanei a Tirana, che sono due. La Caritas organizza il trasferimento dei richiedenti asilo, nutre e conforta tutti gli altri”.
A mezzanotte intravedo dieci corpi adulti e due corpi acerbi scivolare oltre l’uscio della casetta. Conoscerò le sagome sfuggenti a colazione. “Grecia no good. Ho trascorso sei mesi in carcere. I poliziotti mi hanno lasciato addosso solo le scarpe e un mucchio di cartacce incomprensibili. Siamo partiti da Korçë giorni fa, ma siamo stati beccati e identificati nei pressi di Scutari. Domani mattina verremo trasferiti a Tirana, dove chiederemo l’asilo politico” dichiara Alì, cresciuto tra Baghdad e Falluja. “Ma la nostra meta finale è la Germania” irrompe Mustafà, ex muratore, bicipiti stretti da una felpa attillata. Il resto della comitiva sorride, visibilmente rilassata. Nessun altro parla inglese; procediamo a tentoni, smorfie, piccole cortesie. Alla dogana di Han I Hotit, valico di frontiera tra Albania e Montenegro, qualcosa non quadra: a un ragazzo curdo con passaporto tedesco viene intimato di fare dietrofront. Come funghi morti nascono dai terreni circostanti le cupole grigie dei bunker dittatoriali. Settecentocinquantamila per l’esattezza, costruiti durante la Guerra Fredda e sparpagliati in tutta quanta l’Albania per volere di Enver Hoxha, che ha governato il paese dal 1944 al 1985. Alcuni sono abitati da edere e rifiuti, riempiti dalle feci delle pecore belanti. “I migranti si dirigono a nord, sempre a nord, seguendo i binari della ferrovia dismessa o in senso inverso i pali della luce elettrica che collegano Podgorica a Tirana. Vedi lassù, quelle mulattiere polverose? Corrono sugli altopiani anche se la possibilità di essere presi è molto più alta. Per fortuna la polizia locale non si comporta malamente, ci avvisa e noi interveniamo. In estate i sentieri sono pieni di tracce, è facile vederli arrampicarsi e scomparire tra i cespugli. È impossibile però dimenticare le loro storie. A volta basta davvero alzare la testa per scoprire uomini anziché numeri” ammette Cristian, fissando un cane mutilato. “In paese opera Padre Adrian. Ogni tanto si ritrova giovani e famiglie dormire sul sagrato della chiesa. Non possiamo voltarci dall’altra parte. I Balcani sono uno scolapasta, le rotte incontenibili. A Gjirokastër sono arrivate altre trentaquattro persone questa mattina”. Il grande lago è rotto a intermittenza dai balzi delle trote che, dopo aver spiccato il volo, lasciano cerchi concentrici a morire sulla superficie.
“Quando qualcuno viene avvistato prova a scappare. È normale, istintivo, anche io lo farei. È importante capire che camminano da soli, da giorni, in un paese straniero. Proviamo a calmarli e rispettarli come faremmo con noi stessi” confida Gramos, doganiere dell’estrema propaggine sud-orientale d’Albania. “Nel centro d’accoglienza temporaneo per migranti in transito disponiamo di qualche brandina, un cucinotto, un’ulteriore baracca esterna per arginare i flussi estivi, che arrivano a contare ottanta persone giornaliere. Quando fermiamo i migranti, di passaggio sui tanti sentieri che tagliano le colline, chiudiamo un occhio e avvisiamo Aida, l’operatrice Caritas che vive a Bilisht, frazione del comune di Devoll, a nove chilometri da Krystallopigi (confine greco). Anziché lasciarli in dogana Aida si prende cura di loro ospitandoli in una parrocchia. In quanto clandestini è costretta comunque a chiuderli a chiave in camera o al primo piano dell’edificio, ma sempre meglio che lasciarli in un gabbiotto in mezzo al nulla”. La morsa dell’inverno addenta ancora le casette di Bilisht, tremila abitanti. Busso alla porta delle Sorelle Francescane del Vangelo, anima sociale della borgata. Suor Silvia, suor Gabriela e suor Margherita concludono con passione l’Ave Maria, accendono una candela per ringraziare il Signore di averle concesso un altro giorno. Le seguo all’esterno, il portone dell’abitazione rimane socchiuso. “Da due anni la rotta degli esuli è riesplosa. Prima era maggiormente battuta la città di Gjirokastër (più semplice da raggiungere venendo da Atene), ora in tanti preferiscono passare per Bilisht. La polizia pattuglia i sentieri e nasconde le telecamere di sorveglianza nella boscaglia ma posso assicurarti che se dipendesse da loro lascerebbero passare chiunque. Oltre a sostenere il diritto d’emigrare operiamo nel quartiere portando conforto ai soggetti più vulnerabili. Sapessi quante preghiere ci chiedono… È il nostro modo di diffondere energie e buone pratiche”. Intercettiamo la signora Aida, la stessa descritta da Gramos, nello spigolo di via Sefedin Gora. Le tre Sorelle, Bibbia alla mano, si infilano dentro il rione di un condominio. “Vivo di relazioni e fede profonda. Ricordo una famiglia irachena andarsene via con le lacrime agli occhi per l’ospitalità ricevuta a Bilisht. Il figlio più piccolo, di tre mesi soltanto, aveva contratto una brutta polmonite attraversando le montagne di notte. Malgrado la procedura lo vieti, ho insistito personalmente per portare il piccolo e la madre all’ospedale di Korçë. Andavo a trovare entrambi tutti i giorni, mentre il compagno e gli altri due figli della donna venivano coccolati da Altin, mio marito. Sappiamo cosa significa emigrare e stringere i denti per sopravvivere”.
Schivando cacche bovine e polli ruspanti raggiungiamo un altopiano brullo solcato da ruscelli: un pezzetto d’Irlanda trapiantato nel cuore dei Balcani. All’orizzonte scorre una striscia bianca larga all’apparenza venti metri, dove - mi dirà Altin - la multinazionale TAP ha assemblato l’ennesimo pezzo di un Gasdotto colossale, partito da Baku, ingrossato in Turchia e pronto ad approdare nella provincia di Lecce. La ditta, pur di far passare il gasdotto, ha distrutto gli ultimi rimasugli di un cimitero ottomano, protetto da studiosi e affezionati; gli operai se ne sono accorti inciampando sulle ossa dei defunti. “Quando è caduta la dittatura comunista sono immigrato in Grecia. Sono stato trattato come un animale, preso in giro e non voglio che accada anche ai ragazzi che passano di qua. Fino a trent’anni fa questo altopiano era bandito e impenetrabile, circondato da guardie armate, filo spinato, ma anche da alberi da frutto rigogliosi. Per decenni abbiamo vissuto fuori dal mondo e finalmente nel 1990-1991 i muri hanno cominciato a cedere. È scoppiato un esodo incontenibile, dopo anni di miserie. Il cibo scarseggiava, se avevi più del dovuto venivi accusato di essere una spia. Si lavorava unicamente per lo Stato che aveva privatizzato tutto quanto.C’erano anche dei lati positivi durante il regime di Hoxha, ossia l’assenza totale di prostituzione e traffici di droga; le scuole e gli ospedali funzionavano ed erano gratuiti, a discapito però della libertà del popolo albanese. Ecco perché capisco bene i migranti di oggi. Abbiamo già vissuto tutto, parlare in pubblico di politica o avere un parente all’estero era un marchio, un motivo valido per essere spedito in qualche campo di rieducazione in mezzo alle montagne”.
Matthias Canapini

Matthias Canapini è nato nel 1992 a Fano. Viaggia a passo lento per raccontare storie con taccuino e macchina fotografica. Dal 2015 ha pubblicato "Verso Est", "Eurasia Express", "Il volto dell'altro", "Terra e dissenso" (Prospero Editore) e "Il passo dell'acero rosso" (Aras Edizioni).