In causa contro l’ONU per le vittime haitiane dell’epidemia di colera

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In un Paese “sfortunato” come Haiti, tra i più poveri al mondo, agli ultimi posti della classifica dell’Indice di sviluppo umano e di frequente flagellato da cicloni e inondazioni, non ha destato molto scalpore che all’indomani dello spaventoso terremoto del gennaio 2010 si sia scatenata un’epidemia di colera. Essa si è estesa con estrema rapidità in tutto il Paese, dalla provincia alla capitale, anche in ragione delle condizioni sanitarie particolarmente precarie del dopo terremoto; a ben poco servirono i cordoni sanitari creati attorno a Port-au-Prince per arrestare la pandemia. In tre anni il contagio ha fatto 8mila vittime nei diversi picchi epidemici che si sono susseguiti e, ancora oggi, in molti ritengono che la malattia sia ancora in fase endemica. Nonostante fino al periodo antecedente al terremoto il colera non fosse una malattia diffusa a Haiti e non si contassero casi da almeno un secolo, nell’opinione comune è passata la percezione che si trattasse di una tragedia quasi inevitabile. Per lo meno inizialmente.

Le numerose inchieste avviate in seguito, che hanno analizzato il fenomeno forse con minore fatalismo, hanno dato un responso unanime: il contagio è partito dalla base dei caschi blu nepalesi della missione MINUSTAH delle Nazioni Unite (UN Stabilization Mission in Haiti), accampati nei pressi di Méyè, sul fiume Artibonite, il corso d’acqua principale di Haiti, che attraversa l’isola da est a ovest e costituisce uno dei principali approvvigionamenti d’acqua del Paese. Le cattive condizioni igieniche della base avrebbero fatto la loro parte nella trasmissione di un ceppo sud asiatico della malattia, dove il colera è endemico, a Haiti. Nelle condizioni in cui si viveva sull’isola nel 2010 all’indomani del terremoto si temeva di certo un’epidemia anche di malattie molto gravi come dengue o meningite, ma autoctone; “un contagio portato dai soccorritori non è invece un normale rischio contemplato”, come ha dichiarato Fiammetta Cappellini, cooperante Avsi che da oltre 10 anni vive e lavora a Haiti.

Tale tesi sulle origini dell’epidemia è sposata non solo da fonti governative haitiane ma anche indipendenti, come la Transnational Development Clinic e la Global Health Justice Partnership delle Facoltà di Giurisprudenza e di Sanità Pubblica della prestigiosa Università di Yale. È in collaborazione con l’Associazione haitiana per il diritto all’ambiente che esse hanno di recente pubblicato un volume dal titolo “Peacekeeping without accountability”, come dire “Peacekeeping senza responsabilità”, con un sottotitolo quanto mai chiaro “La responsabilità delle Nazioni Unite per l’epidemia di colera a Haiti”. Se inconcludenti rimangono gli studi del panel indipendente di studiosi incaricato nel 2011 dal Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki-moon, di studiare le origini del contagio, un’altra voce attendibile, quella del Centro statunitense per il controllo e la prevenzione dei disastri, ha convenuto che prove evidenti indicano i peacekeeper nepalesi dell’ONU quali i responsabili dell’epidemia.

Dalle inchieste e dai rapporti sulle responsabilità si è presto passati all’azione verbale di denuncia, alla quale si è affiancata quella legale: nel novembre del 2011 il governo haitiano ha depositato contro l’ONU una richiesta di indennizzo a nome delle oltre 8.000 vittime dell’epidemia di colera a Haiti. Una richiesta respinta nettamente da Ban Ki-moon che, nel febbraio di quest’anno, informava il presidente haitiano Michel Martelly, per bocca del suo portavoce sull’isola Martin Nesirky, che la richiesta di risarcimento avanzata era irricevibile in base alla sezione 29 della Convenzione sui privilegi e sulle immunità dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Tuttavia non mancava di reiterare l’impegno dell’Organizzazione per eliminare il colera dal Paese, messo in atto con investimenti, strumenti e personale sin dalla scoppio dell’epidemia, e “di esprimere ancora una volta il suo più profondo cordoglio per la terribile sofferenza causata dall’epidemia di colera, facendo un appello a tutti i Paesi partner di Haiti e della comunità internazionale affinché si lavori insieme per assicurare una salute e un futuro migliore alla popolazione haitiana”. Non una parola sulle ragioni dell’epidemia e sulle responsabilità attribuite ai caschi blu dell’ONU.

Non mancano però voci discordanti in seno all’Organizzazione, specie dinanzi alla nuova class action contro l’ONU depositata presso il tribunale distrettuale federale di Manhattan il 19 ottobre scorso da un gruppo di avvocati per la difesa dei diritti umani dell’Institute for Justice and Democracy in Haiti (Ijdh), della sua associata haitiana Bureaux des avocats internationaux (Bai) e di uno studio civile della Florida. Una scelta quella del tribunale statunitense nel centro di New York non affatto casuale, dato che proprio lì ha la sede l’Organizzazione delle Nazioni Unite. È Navi Pillay, l’Alto Commissario per i Diritti Umani dell’ONU, ad aprire uno spiraglio dai suoi uffici di Ginevra, dichiarando “Credo che le vittime del colera e chi ha sofferto a causa della malattia debbano ricevere un risarcimento”. Tuttavia neanche lei si esprime su chi dovrebbe erogare tale indennizzo.

Al di là della questione economica, in gioco sono soprattutto la percezione dell’ONU da parte dell’opinione pubblica internazionale e la sua credibilità di attore che opera per il bene dell’umanità, difendendo “tutti i diritti umani per tutti”, anche quello alla salute di una delle popolazioni più povere del mondo. Non costituisce un ulteriore aggravante dell’azione colposa dell’ONU il fatto che la lotta contro le gravi malattie sia uno degli Obiettivi di sviluppo del millennio?

Miriam Rossi

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