Papua Nuova Guinea: per le donne non è un paradiso

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Al dodicesimo parallelo sud, la violenza sulle donne è qualcosa di scontato. Un fatto talmente diffuso da essere considerato normale. Non c’è famiglia che non conosca, tra la propria cerchia di amici e parenti, una donna picchiata, violentata, sopravvissuta a uno stupro di gruppo, obbligata a sposarsi contro la sua volontà, abbandonata, insultata o torturata. Secondo l’UNICEF, ben un milione di bambini convive con la violenza in famiglia o nella comunità. 70 papuane su 100 sono state almeno una volta abusate fisicamente dal proprio marito e Amnesty International stima che tra l’80 e il 90 percento delle donne ferite accettate in ospedale vi finiscono per colpa dei loro partner. Uomini che, tradizionalmente abituati a esprimere la mascolinità con la forza, temono che la modernità eroda il loro indiscusso controllo sull’altro sesso e reagiscono rincarano la dose di aggressività. A volte, basta una manifestazione di gelosia nei confronti delle altre mogli per accendere la miccia. In altre occasioni, sono botte perché a letto o in cucina l’esigente consorte non è del tutto soddisfatto.

Alla base dei soprusi c’è la vecchia convinzione che la moglie sia una proprietà del marito, sorretta dall’usanza di cedere le proprie figlie al pretendente, solo dietro a un corrispettivo in denaro o barattandole con riso, una televisione o una macchina. L’uomo rinuncia a una consistente fetta della sua ricchezza in cambio di una meri su cui si sente in diritto di fare qualsiasi cosa: picchiarla, maltrattarla, e nei casi più gravi ferirla con bastoni, spranghe di ferro e coltelli, anche quando dentro di sé porta un bambino. «Il livello di brutalità è semplicemente scioccante e il problema è che le papuane pensano che tutto ciò sia parte integrante del “pacchetto matrimoniale”- spiega Amelia Shaw, esperta di comunicazione per la salute e per la promozione dei diritti femminili della radio-televisione pubblica australiana ABC -. Recentemente, nell’ambito della Media for Development Initiative (MDI), programma dell’unità di sviluppo internazionale per il rafforzamento dei mezzi di comunicazione, abbiamo condotto, insieme a Intermedia, un’indagine con 1300 partecipanti femmine. Più della metà sono convinte che in qualche modo sia colpa loro se vengono maltrattate».

Shaw si occupa di una campagna di sensibilizzazione, “Use your Voice”, promossa da MDI e dalla Cooperazione australiana AusAID, per diffondere, attraverso la radio nazionale della Papua Nuova Guinea NBC, gli anticorpi all’epidemia di violenza. Un’epidemia che si sta diffondendo nelle città, sulla costa, così come sugli altopiani, causando gravi danni alla salute della popolazione. Malattie sessualmente trasmissibili, gravidanze indesiderate e conseguenti aborti clandestini, contusioni, fratture, danneggiamento di organi interni e traumi psicologici sono tutte conseguenze che incidono sulla qualità della vita e sui costi sociali. Inoltre, la violenza di genere è la principale causa dell’infezione da HIV, che colpisce nel 60 percento dei casi proprio le donne, le quali per paura di essere ulteriormente maltrattate, preferiscono tacere la loro sieropositività e rinunciare a prevenzione e cura.

Sebbene la violenza intra-coniugale sia quella più diffusa, nemmeno fuori dalle mura domestiche il “gentil sesso” è al sicuro: vendette tra famiglie, molestie sui mezzi pubblici, sesso in cambio di denaro, abusi perpetrati dalle forze di polizia e aggressioni per mano di estranei sono all’ordine del giorno. Nella capitale Port Moresby, una tra le città più pericolose al mondo, ci sono tassisti che girano con affilati coltelli, pronti a difendere le donne dagli altri passeggeri, potenziali aggressori. «Può addirittura capitare di vedere un corpo scaraventato fuori da una macchina o un bus in corsa» racconta sempre la comunicatrice di ABC, che dal 2011 vive sull’isola. Un paradiso per gli antropologi e casa di oltre 800 gruppi culturali e linguistici, dove sopravvive la caccia alle streghe, altro modo per liberarsi delle donne più scomode, accusandole di aver provocato, con presunti poteri soprannaturali, una morte improvvisa, un malanno o qualche altra disgrazia.

La risposta istituzionale è ancora debole e manca un piano coordinato di prevenzione capace di intaccare la radicata cultura dell’abuso. Il paese ha ratificato le principali convenzioni internazionali sui diritti umani e contro la discriminazione di genere. Nell’ordinamento nazionale la violenza fisica e sessuale sulle donne, anche quando perpetrata all’interno della coppia, è considerata un reato. Ma nonostante ciò, pochi di coloro che si macchiano di crimini contro le donne finiscono in carcere. «Basti pensare che solo negli ultimi due anni la polizia ha iniziato a fare qualcosa, avviando un’unità speciale per proteggere le donne», dice Shaw.

Fulcro della campagna di MDI è Talk Back, un programma radiofonico di tre mesi in cui gli ascoltatori hanno potuto interagire con sopravvissute, agenti di polizia, operatori sociali e medici ospiti in studio. Alcune puntate sono state realizzate live da mercati e ritrovi di villaggi e piccoli centri urbani, un banco di prova per gli stessi reporter di NBC, precedentemente formati dai colleghi australiani su come raccontare, in modo bilanciato e rispettoso, fatti di violenza di genere.

Scopo del programma è spezzare la cultura del silenzio, infranta peraltro l’anno scorso da Joy Wartovo, moglie ventiseienne di un manesco poliziotto e madre di due bambini. Joy martoriata da sei anni di inferno, durante i quali oltre alle botte quotidiane ha dovuto sopportare bruciature da ferro da stiro e colpi di ascia e martello, si è rivolta alla polizia. Il suo volto gonfio è finito sui media, scuotendo l’opinione pubblica. «La violenza sulle donne è un fenomeno di cui la gente preferisce non parlare – spiega Shaw -. Ma il caso di Joy ha segnato un punto di svolta». In pochi giorni il gruppo Facebook Papua New Guineans Against Domestic Violence ha raggiunto oltre 5 mila iscritti, circa il 10 percento dell’intera popolazione papuana presente nel social network, e più di 500 e-mail sono state recapitate alla polizia, su invito del gruppo di attivisti ActNow, affinché il marito di Joy venisse arrestato e processato.

Durante Talk Back è stata anche indetta una competizione per le migliori iniziative di contrasto alla violenza. Tra i finalisti, l’autore di una canzone sul ruolo positivo che gli uomini possono giocare, un operatore di comunità abile a utilizzare lo sport come strumento di convincimento e un gruppo di cinque giovanissime che hanno intrapreso un sentiero di montagna, fermandosi nei villaggi a parlare della taciuta violenza. Infine, sono stati mandati in onda 25 spot, ciascuno con il suo messaggio chiave per instillare nel singolo ascoltatore l’idea di poter diventare un agente di cambiamento sociale. Per esempio, facendosi coraggio e intervenendo per bloccare un pestaggio, anziché girare la testa dall’altra parte. Oppure, incoraggiando le vittime a rivolgersi alle autorità sanitarie per ottenere un referto entro 72 ore dall’accaduto, in modo da avere gli strumenti per poi sporgere denuncia. Ai programmi radiofonici è stata affiancata anche una campagna via sms, un training per 120 giornalisti e una serie di video documentari. Un bombardamento di messaggi a livello nazionale senza precedenti, che secondo Shaw ha il suo punto di forza nel proporre soluzioni concrete: «Perché non è sufficiente dire “basta alla violenza sulle donne”, bisogna anche suggerire alla gente disposta a perseguire tale obiettivo delle azioni precise». Per mettere in piedi un intervento di Comunicazione per lo Sviluppo (C4D) così complesso, in un’area geografica in cui mancano dati e casi studio, il team di MDI ha guardato prima a paesi come l’India e il Sudafrica, dove da tempo i media sono utilizzati per promuovere l’uguaglianza di genere. Secondo l’esperta, la Papua Nuova Guinea potrebbe essere la spia di un’epidemia di violenza estesa a tutta l’area del Pacifico. «Per questo – aggiunge - vorremmo riuscire a costruire un modello che poi sia replicabile in altre isole».

Daniela Bandelli

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