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La parola agli sfollati per un possibile sviluppo
ICT Tecnologie informatiche
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In nome del progresso, ogni anno milioni di persone vengono prese e spostate dal posto in cui hanno sempre vissuto. Dighe, ponti, strade, miniere e programmi di sviluppo agricolo rubano alle popolazioni locali luoghi, abitudini e ricordi. Lo sconvolgimento è totale: progetti futuri tranciati, lavoro e svaghi da reinventare, compiti tra uomini e donne da ripartire, relazioni saltate, strutture tradizionali in tilt. Tutto nuovo, da un giorno all’altro. E per la maggior parte degli sfollati la qualità della vita, sia sotto il profilo economico sia sociale, non torna mai ai livelli di prima.
I disagi, le priorità, le emozioni di queste persone raramente giungono alle orecchie di chi pianifica i progetti di sviluppo e di ricollocamento. Una mancanza che l’Ong internazionale Panos, dedicata alla promozione del dialogo e del cambiamento, cerca di colmare con il programma Oral Testimony, arricchendo con narrazioni in prima persona il discorso sullo sviluppo, impregnato di grigie terminologie, generalizzazioni e retorica. Avviato nei primi anni Novanta, per dare l’opportunità, non solo gli sfollati ma in generale i poveri e gli emarginati del Sud del mondo, di narrare se stessi, il programma risponde alla necessità, evidenziata negli studi di Robert Chambers, del Britain Institute for Development studies del Sussex, che i tecnici dello sviluppo ascoltino le popolazioni locali e non viceversa, come invece è stato per lungo tempo insegnato dai propugnatori della modernizzazione e dello sviluppo calato dall’alto. Un paradigma, quest’ultimo, oramai obsoleto, ma di fatto ancora applicato nelle pratiche di molti progetti e nell’atteggiamento di molti operatori, sebbene nelle stanze della cooperazione internazionale si ripeta da più di trent’anni il mantra dello sviluppo partecipativo.
Dalla pubblicazione nel 1993 di “Listening for a Change” di Hugo Slim e Paul Thompson, con cui Panos illustrò per la prima volta la rilevanza della testimonianza orale nelle pratiche di sviluppo, l’organizzazione ha lavorato con più di 50 partner in 35 paesi, formato diverse centinaia di intervistatori e prodotto circa 1300 testimonianze. Storie raccolte, agli inizi con l’ausilio di mangiacassette che i formatori dovevano portare con sé dall’Europa, oggi con registratori digitali e maneggevoli videocamere, acquistabili anche nei paesi di intervento. A carpire percezioni e valori degli inascoltati sono persone comuni, che parlano la stessa lingua degli intervistati.
Durante i workshop organizzati da Panos insieme alle Ong partner, imparano a mettere a proprio agio il narratore, fare le domande giuste, ascoltare e trascrivere le registrazioni. L’intervista può essere biografica, riguardare i parenti delle generazioni passate e presenti o concentrarsi su un particolare tema. Può essere condotta in gruppo, accompagnarsi alle annotazioni su un diario di comunità e dare spazio a canzoni e poesie.
Gli script sono poi elaborati e trasformati in pubblicazioni, programmi radiofonici, servizi fotografici e film. Sono distribuiti nelle stesse comunità, ai media nazionali e presentati ai summit internazionali, con l’obiettivo di far arrivare le voci degli emarginati alle orecchie di chi decide le loro sorti, a giornalisti e accademici. In altre parole, l’obiettivo della fase divulgativa è innescare un dibattito in cui non parlino i soliti noti, bensì gli esclusi, anche attraverso il coinvolgimento delle televisioni locali. Per esempio, nel Jharkhand, stato dell’India orientale, gli indigeni che hanno perso le proprie terre a causa della crescente estrazione di carbone, con l’aiuto dell’Ong locale Prerana, si sono fatti sentire con un libricino di interviste e a una tavola rotonda con gli attori dell’industria mineraria, trasmessa dalla radio nazionale e da varie televisioni locali.
La storia degli sfollati del Jharkhand è uno dei sei casi studio, ambientati in Pakistan, Kenya, Botswana, Namibia, India e Lesotho, raccolti da Olivia Bennett e Christopher McDowell nel libro “Displaced: The Human Cost of Development”, che svela le sfide affrontate dalle vittime dei piani di sviluppo per ricreare una comunità. Sfide che hanno a che vedere soprattutto con l’interruzione dell’identità culturale, fratture tra generazioni e il riposizionamento dei ruoli tra i sessi.
Secondo Bennett, fondatrice del programma Oral Testimony, il merito delle interviste con gli sfollati è stato portare alla luce la multidimensionalità della loro condizione, lo stress e il dolore per le cose perdute, che nessun risarcimento economico può veramente ricompensare. Perché l’imposizione a lasciare il posto in cui si è vissuta un’intera vita comporta anche un distacco forzato dai luoghi che rievocano ricordi, un po’ come perdere una persona cara. “Sentono di aver perso il controllo sulle loro stesse vite: nel nuovo contesto, non possono più contare sulle competenze che nel territorio d’origine, spesso in zone rurali, utilizzavano per guadagnarsi da vivere – spiega l’esperta -.
Inoltre, la frustrazione della perdita di potere (disempowerment) mina il percorso di inserimento e la capacità di affrontare le nuove sfide”. Tant’è che anche dopo trent’anni gli 80 mila pakistani di Tarbela, nel nord-ovest del paese, che nel 1976 dovettero abbandonare le proprie case per lasciare posto alla seconda diga più grande al mondo, continuano a chiamare casa il posto che si sono lasciati alle spalle e a sentirsi degli estranei nei nuovi insediamenti, a margine del sito, sulle montagne e nelle province di Sindh e Punjab.
Comune alle testimonianze raccolte è lo stress causato dall’incertezza nei tempi e nelle modalità dei progetti: rinvii, negoziazioni, ritrattazioni, voci di corridoio, allarmismi e rassicurazioni si intervallano per decenni, finché un bel giorno le ruspe o i mezzi per il trasferimento colgono impreparati gli abitanti, i quali finiscono ingabbiati nelle rigide categorie dei programmi di ricollocamento, dove la storia delle singole famiglie e le esigenze individuali si perdono. A meno che, coloro che lo sviluppo spesso considera solo dei numeri non si trasformino in narratori di se stessi.