Italia e digitalizzazione: rimandati a settembre?

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In Europa si discute tanto di transizione digitale, specialmente dopo il faticoso accordo all’ultimo vertice UE e il varo dell’ambizioso Recovery Fund post-Covid, il quale si poggerebbe su un piano di investimenti urgenti di lungo raggio, trainati in particolare da una conversione verde e digitale delle nostre economie, fattori considerati chiave per un futuro prospero e resiliente del continente Europeo. “Il piano di risanamento proposto trasforma l'immensa sfida che affrontiamo in un'opportunità, non solo sostenendo la ripresa ma anche investendo nel nostro futuro: il Green Deal europeo e la digitalizzazione promuoveranno l'occupazione e la crescita, la resilienza delle nostre società e la salute del nostro ambiente” a detta della Presidente della Commissione Europea von der Leyden. Ma se questi sono i pilastri della ripartenza, come si comporta l’Italia in quanto a digitalizzazione rispetto ai fratelli e sorelle Europei?

Poche settimane fa la Commissione Europea ha pubblicato i risultati dell’indice DESI 2020, uno studio che misura il grado di digitalizzazione dell’economia e in generale della società degli stati membri dell’UE. I dati, è bene ricordarlo, sono stati rilevati prima dell’emergenza sanitaria, quindi non tengono conto degli eventuali effetti negativi (o positivi) del lockdown. Senza grosse sorprese l’Italia si colloca agli ultimi posti, 25esima su 28, perdendo due posizioni rispetto al 2019, e riuscendo a fare meglio solo di Romania, Grecia e Bulgaria. L’indice si basa su cinque componenti principali: connettività, capitale umano, uso dei servizi internet, integrazione delle tecnologie digitali, servizi pubblici digitali; a loro volta, suddivisi in un’ampia costellazione di indicatori.

È nel componente di capitale umano che l’Italia ottiene il risultato più disastroso e si posiziona ultima tra tutti i paesi membri. Le cause sono molteplici, forse ricollegabili a tre macroelementi: la performance scolastica-universitaria e le scarse competenze che il sistema conferisce agli studenti è senz’altro una delle più evidenti. A questo però va aggiunto il fatto che le donne, che ormai si laureano di più e meglio dei colleghi maschi, spesso non scelgono un percorso formativo di tipo scientifico-tecnologico. In questo modo si perdono colpi nell’evoluzione digitale del nostro capitale umano e ciò incide, tra le altre cose, sulla partecipazione femminile al mercato del lavoro. Il terzo elemento è riconducibile agli investimenti in capitale umano, successivi alla fase educativa, nella società nel suo complesso; vale a dire quegli investimenti continui che dedichiamo alla nostra persona, che la nostra azienda, o amministrazione pubblica per la quale lavoriamo, realizza su di noi. Nella maggioranza dei casi, sia nel pubblico che nel privato (soprattutto nelle piccole e micro imprese), mancano risorse e volontà di sviluppare quelle competenze digitali richieste per stare al passo.

Altro dato desolante, attestato di una mancata vocazione digitale del Bel Paese, si lega all’uso dei servizi internetin Italia il 17% della popolazione non ha mai utilizzato internet, rispetto a una media europea di quasi la metà. Ciò non si spiega evidentemente per questioni di bassa connettività o copertura di rete fissa e mobile (dove l’Italia si comporta dignitosamente con un punteggio prossimo alla media Europea), ma piuttosto per ragioni demografiche – siamo un paese di anziani – e culturali – non abbiamo la capacità di visualizzare e sfruttare tutti i benefici che possono derivare dalla digitalizzazione, dalla rete, da internet. Lo studio conferma che siamo inoltre poco predisposti alla differenziazione dei canali dei nostri servizi (bancari, shopping e vendita online, etc.) e quindi all’apertura a una maggiore concorrenza in questi settori. Tutto al netto di una minore fiducia nei canali digitali, forse giustificata da frodi più ricorrenti che in altri paesi. In più, se lo Stato si mette a tassare le transazioni finanziarie online a favore di pagamenti in contante, come accade in Italia, viene fuori un gran pasticcio.

Emerge poi che le tecnologie digitali non sono realmente integrate nel sistema economico e imprenditoriale italiano: non si sfruttano i dati (Big Data), non si creano attività di vendita online e di commercio elettronico, anche complice la ridotta capacità di investimento intrinseca alle micro e piccole imprese che in Italia sono parecchie. Sui servizi pubblici digitali, infine, un dato su tutti spaventa: gli utenti e-government (coloro che sono tenuti a fruire dei servizi digitali pubblici) sono solo il 32% versus una media Europea del 67%. Forse perché questi servizi sono offerti solo formalmente?

Il punto qui non è tanto preoccuparsi se l’indice sia strutturato correttamente, o chiedersi se sia sufficientemente esaustivo, quanto interrogarsi sul perché un paese come l’Italia, in questo tipo di classifiche, si ritrova sempre nelle retrovie rispetto ai suoi “simili”: vedi il Doing Business Index o il Worldwide Governance Indicators della World Bank, Product Market Regulations dell’OCSE, Index of Economic Freedom dell’Heritage Foundation, o il Global Competitiveness Report del World Economic Forum. Neppure nell’Indice di Sviluppo Umano riusciamo a distinguerci.

Questi indici valutano e isolano aspetti diversi di una società, ma inevitabilmente sono interconnessi l’uno con l’altro. A maggior ragione, a fronte della crisi sanitaria ed economica che stiamo vivendo, il crollo delle ore lavorate e le prospettive raggelanti del mercato lavorativo, esiste il rischio di una “generazione persa”, le cui carriere vengano permanentemente ridimensionate a causa dell’interruzione dell’economia. L'impatto del COVID-19 è e sarà particolarmente grave per i giovani, i lavoratori a basso reddito e autonomi, le donne, i migranti, i bambini e individui con disabilità. I loro futuri lavorativi, anche in funzione di eventuali nuovi quarantene, dipendono anche dalle infrastrutture digitali e tecnologiche che il territorio saprà fornirgli. Non solo smartworking, ma ridisegnare ove necessario l’intera organizzazione aziendale e pubblica, l’offerta di prodotti e servizi, l’analisi di dati, schemi di formazione e riaddestramento.

Il progresso digitale del nostro paese è propedeutico alla sua ripartenza economica e sociale, sotto una veste più dinamica, più appetibile. L’Italia nei prossimi mesi ed anni dovrà concentrarsi sull’abbattimento di barriere ideologiche e culturali, e predisporre un cammino agevolato e sicuro verso la digitalizzazione, senza la quale, ahimè, si aprirà una voragine incolmabile tra noi e i nostri fratelli e sorelle Europei.

Marco Grisenti

Laureato in Economia e Analisi Finanziaria, dal 2014 lavoro nel settore della finanza sostenibile con un occhio di riguardo per l'America Latina, che mi ha accolto per tanti anni. Ho collaborato con ONG attive nella microfinanza e nell’imprenditorialità sociale, ho spaziato in vari ruoli all'interno di società di consulenza e banche etiche, fino ad approdare a fondi d'investimento specializzati nell’impact investing. In una costante ricerca di risposte e soluzioni ai tanti problemi che affliggono il Sud del mondo, e non solo. Il viaggio - il partire senza sapere quando si torna, e verso quale nuova "casa" - è stato il fedele complice di anni tanto spensierati quanto impegnati, che mi hanno permesso di abbattere barriere fuori e dentro di me, assaporare panorami, odori e melodie di luoghi altrimenti ancora lontani, appagare una curiositá senza fine. Credo in un mondo più sano, equilibrato ed inclusivo, dove si possa valorizzare il diverso. Per Unimondo cerco di trasmettere, senza filtri, la veritá e la sensibilità che incontro e assimilo sul mio sentiero.

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