Nord Kivu: il futuro sembra soltanto nero

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Unimondo si è occupato spesso di un conflitto tanto tragico quanto dimenticato quello che coinvolge la strategica regione del Kivu, nell’est della Repubblica Democratica del Congo. Una regione ricchissima di materie prime, contesa tra il Congo, l’Uganda e il Rwanda e percorsa da milizie irregolari che terrorizzano la popolazione. La situazione del nord Kivu non lascia spazio a facili speranze. La settimana scorsa si sono interrotti i colloqui di pace tra i vari protagonisti in campo: il rimpallo delle responsabilità di questa rottura apre scenari inquietanti. La situazione rischia di precipitare. Non si contano le fosse comuni. Negli ultimi giorni si è acceso uno scontro aperto e violentissimo tra l’esercito regolare congolese e i ribelli delle milizie M23: secondo recenti notizie l’esercito ha conquistato una roccaforte dei ribelli al confine con l’Uganda (a 80 chilometri a nord di Goma), mentre prosegue il flusso di profughi proprio in direzione dell’Uganda.

Difficile prevedere l’evolversi della situazione, impossibile fare un commento a distanza. Proponiamo allora la seconda parte dell’intervista al fotografo e documentarista Marco Gualazzini che è stato premiato con il Grants for Editorial Photography durante il festival Visa Pour l’Image, organizzato da Getty Images, uno dei portali più noti che offrono contenuti digitali. Gualazzini è stato premiato per una serie di fotografie realizzate proprio in Congo RDC nella zona del Kivu. Gualazzini continuerà il suo reportage dal titolo “M23 – Kivu: A Region Under Siege”.

Queste le sue impressioni.

Da quando ha cominciato ad occuparsi della situazione nel Nord Kivu?

Quattro anni fa, con un progetto autofinanziato. Lavoro con L’Espresso, ed ho un rapporto diretto con la photoeditor e il capo redattore. Con il giornalista che è venuto via con me avevamo proposto la storia e sapevamo che da parte loro c’era un concreto interesse. Quindi siamo partiti.

Siamo rimasti un mese, ottobre. Poi tornai in Italia, e gli M23 dopo un paio di settimane che ero a casa conquistarono Goma. Decisi di tornare, anche se L’Espresso aveva già pubblicato il servizio. Pensavo che dopo aver trascorso un mese in una città sotto assedio, nel momento in cui questa era stata conquistata, non potevo, a prescindere dalla pubblicazione, non essere lì in quel momento storico. Sentivo anche che, eticamente, non potevo abbandonare le persone che mi avevano aiutato, esponendosi loro in prima persona- come Gustave, il mio autista, che ha dieci figli- per permettermi di realizzare questo servizio.

Come le sembra cambiato il quadro in questi mesi/anni?

Di base dal 2009 ad oggi non è cambiato praticamente nulla. Prima c’era il generale Nkunda, ora Kagame. Prima i ribelli si chiamavano CNDP, ora M23. Prima avevano gli anfibi, ora hanno scarponi di gomma. Cos’è cambiato? Il loro look, e i loro nomi. Ma hanno sempre le stesse facce.

Penso che anche per un fotografo ci siano rischi ad operare in una zona di conflitto. Che difficoltà ha trovato?

Non è facile muoversi in queste situazioni, non è facile muoversi in Africa, quindi parlerei innanzitutto di difficoltà logistiche.

In Congo c’è una profonda corruzione su tutti gli strati sociali, e questo complica di molto il lavoro. Non dimentichiamo che oltretutto in questo caso ci si rapporta a degli ex-genocidari, quindi bisogna tenere presente che la vita in questi casi vale davvero poco.

Io però sono stato fortunato perchè ho incontrato persone che mi hanno notevolmente aiutato perché hanno sperato, sperano che attraverso la nostra testimonianza, la loro situazione non venga dimenticata dall’opinione pubblica internazionale.

Le sue fotografie sono in bianco e nero. Perché questa scelta?

Di solito fotografo a colori, perché vedo a colori, ma Goma è nera. È nera la terra lavica sulla quale camminano. È nero il cielo plumbeo che la avvolge. Nera è la loro pelle e i loro occhi. Nero è il loro passato. Il loro futuro.

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