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Uno scatto per porre domande: intervista al fotografo Gualazzini
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Marco Gualazzini è un fotografo e documentarista che percorre il mondo alla ricerca di uno scatto o di una serie di immagini capaci di gettare luce su situazioni lontane ma determinanti per il nostro futuro. Dal sistema castale in India alla situazione della stampa in Laos, dal microcredito fino alla libertà religiosa, i suoi campi di azione si incrociano con le istanze globali più urgenti. Recentemente, durante il festival del fotogiornalismo Visa Pour l’Image, ha vinto Grants for Editorial Photography di Getty Images, media company leader per l’offerta di contenuti digitali quali immagini, video e musica. Gualazzini è stato premiato per una serie di fotografie fatte in Congo RDC nella zona del Kivu dove da anni perdura un gravissimo conflitto: inoltre Gualazzini, grazie al sostegno di Getty Images, continuerà il suo reportage dal titolo “M23 – Kivu: A Region Under Siege”.
Abbiamo potuto rivolgere queste domande al fotografo. Dalle risposte emergono le motivazioni ideali che lo hanno spinto in questa direzione ma anche il realismo con cui svolge un mestiere difficile e affascinante.
Complimenti per il premio che ha meritatamente ricevuto. Come nasce la sua passione per la fotografia?
Mi hanno ispirato dei fotografi, come Nachtwey o Gilles Peress, che nel momento in cui mi avvicinavo a questo mestiere stavano lavorando proprio a Goma.
Nachtwey dice in un’intervista, che dopo aver documentato il genocidio del Rwanda, si spostarono a Goma perché era appena scoppiata un’epidemia di colera. E vittime e carnefici, erano mischiati tra loro, agonizzanti e morenti. Per lui fu come prendere un ascensore per l’inferno. Le foto di quel periodo sono scioccanti, ma furono proprio quelle le foto che mi fecero avvicinare a questo mestiere.
Quali esperienze decisive ha avuto nel corso dei suoi reportage?
Sono figlio di un giornalista e sono cresciuto in ambienti in cui giravano Egisto Corradi o Montanelli, quindi il tutto penso sia partito dalla passione per il giornalismo. Avevo la passione per i viaggi ed ero curioso di vedere il mondo. Non m’interessa la politica italiana ma sono attratto dall’esotico. Credevo che la fotografia fosse un modo che giustificasse la mia curiosità di addentrarmi in determinati “mondi altri”. Così ho iniziato.
Spesso uno scatto fotografico riesce a descrivere una situazione meglio di molte parole. Che cosa è necessario per poter cogliere l’attimo giusto?
Per quello che mi riguarda, si tratta in grandissima parte di fortuna. Lavoro dopo lavoro, acquisisci esperienza, ma spesso quello che hai imparato la volta prima, la volta dopo viene completamente stravolto. Si devono incastrare mille tasselli, e se solo uno di questi non va al suo posto, la fotografia ne risente. Devi essere accettato, devi avere la possibilità di muoverti, devi essere al posto giusto nel momento giusto, ci deve essere la condizione di luce favorevole, sono tante le componenti che non dipendono da noi. Penso abbia ragione Kapuscinski: nel giornalismo non passiamo parlare di genio o bravura, ma solo di umiltà e fortuna.
Che rapporto cerca di instaurare con le persone che vuole ritrarre?
Come tutti i miei colleghi cerco di instaurare un rapporto di empatia con i soggetti che fotografo, anche se spesso non è facile. Non è facile con i militari, che hanno paura che si possa essere spie o che si voglia svelare le loro posizioni, e non è facile con la gente comune, che in qualche modo, anche se consapevole di essere vittima di profonde ingiustizie, ha una dignità. Le persone possono provare vergogna nel mostrare in che condizioni disumane sono costrette a vivere. Dipende molto anche in che modo però ci si rapporta a questi, chi ti introduce in queste situazioni. È solo se capiscono il perché sei lì, e ti accettano, che si riesce a fare un certo tipo di fotografia.
Che funzione può avere secondo lei la fotografia per sostenere i diritti umani?
È una questione che si ripropone da anni. È stata affrontata da tanti, dalla Sontag a Barthes, dai fotografi stessi. Un’altra grande incognita di questo mestiere.
Io faccio del giornalismo. Il giornalismo è informazione, e se svolto in maniera etica, può aiutare ad individuare i problemi. Questo può essere il primo passo per risolverli.
Il fotogiornalismo però non ci da alcuna risposta. Serve solo a porci delle domande. Ci si augura che quello che facciamo non sia vano.
[PGC]