Lavoro? Non ce NEET

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Rieccoci da capo. Chi si aspettava che il governo delle larghe intese trovasse velocemente un modo per mettere mano alla legislazione del lavoro e risolvere le ormai radicatissime storture di un sistema dell’occupazione fuori controllo (dall’approvazione del pacchetto Treu nel 2003 e quindi oltre 10 anni fa) è certamente rimasto deluso e a pagare lo scotto più grande, come spesso accade sono le giovani generazioni.

Poco è cambiato, e il nostro Paese arranca. Numeri alla mano, il rapporto Ocse sull’impiego è impietoso: la percentuale di nostri compatrioti senza occupazione nella fascia 15 - 24 anni è ormai oltre il 50%, per la precisione il 52,9%; ancora viene rilevato come tra il 2007 e il 2012 la percentuale degli inoccupati in tale fascia da noi sia cresciuta del 6,1 % contro una media europea attestata attorno al 4%..

Non ci siamo, non siamo reattivi e sembriamo incapaci di inventare alcunché. La sottolineatura più preoccupante riguarda i NEET, acronimo inglese che, tradotto significa “colori i quali non lavorano, non si formano professionalmente, non studiano”. Questi giovani, spesso impossibilitati a cercare un lavoro perchè afflitti da seri casi di depressione per il fatto di trovarsi in una società che non solo non cerca di integrarli ma che li respinge apertamente, rappresentano il vero campanello d’allarme; solo Grecia e Turchia hanno più Neet dell’Italia e questo imposta le previsioni future al nero stabile.

Anche chi lavora, seppur da precario, di certo non può gioire per il salario. Un approfondito studio della CGIA di Mestre di alcuni mesi fa restituisce un quadro agghiacciante con un numero assoluto di precari italiani di 3.315.580 unità, riceventi mensilmente una busta paga media media di 836 euro netti - 927 euro mensili per i maschi e 759 euro per le donne - a rimarcare ancora una volta il perdurare delle discriminazioni cui la donna italiana è sottoposta.

E a livello generale tutti gli impiegati, anche coloro i quali - sempre meno- godono di un contratto a tempo indeterminato, vedono scemare il proprio potere d’acquisto; infatti con un salario reale medio annuo di 33.849 dollari in calo dell’1,9% sulle rilevazioni 2011, la nostra amata penisola è 20esima sui 30 paesi di cui sono disponibili i dati e la media Ocse è superiore di quasi 10mila dollari (43.523 dollari ,-0,1% sul 2011). La locomotiva europea Germania si trova a 42mila euro (+1%) e la Francia a 39.600 (+0,4%). Il calo segnato dai salari medi in Italia lo scorso anno è ancora più ampio di quello del 2011 (-1,5%) mentre in tutta l’area Ocse, salari hanno in media segnato un aumento dello 0,3% . Il costo unitario del lavoro, inoltre, dopo il calo dell’1,6% del 2011 è diminuito dello 0,5% nel 2012 contro -0,8% e -0,9% della media Ocse.

Cosa fare, quindi per uscire da questa empasse? Potrebbe essere d’aiuto cominciare a pensare al lavoro in modo completo, evitando di parlare di lavoro giovanile e lavoro come se fossero due mondi distinti. Fuor di metafora l’Italia e gli italiani chiedono semplici, chiare ed immediate riforme, fino ad ora tanto citate ma mai attuate. Se vuole tornare ad essere l’ottava potenza economica del mondo (eh già, siamo fuori dal G8, ci ha appena superati la Russia) ed evitare una ancor più forte depressione economica è necessario che lo Stato Italiano guardi a se stesso e si riformi come un sistema. Altrimenti la pezza, messa di volta in volta sui giovani, sui precari, sugli esodati, sarà sempre peggio del buco che, detto tra noi, diventa sempre più grande e profondo. Per fare questo necessitiamo di ministri e di un governo autorevoli, dove , ad esempio, il vicepresidente del Senato non si diletti di stupida, lombrosiana ed ottusa pseudoantropologia ma si dedichi, seriamente, al futuro del Paese. Sarà mai possibile?

Fabio Pizzi

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