Multinazionali

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“Un tempo le nostre vite dipendevano dalle decisioni dei re, degli imperatori, dei feudatari. Oggi dipendono da quelle delle multinazionali. Sono loro, infatti, che decidono se dobbiamo avere un lavoro o rimanere disoccupati, se dobbiamo curarci a buon mercato o a prezzi proibitivi, se dobbiamo mangiare cibi sani o geneticamente modificati, se dobbiamo avere un’informazione di qualità o notizie distorte, se potremo o non potremo avere un futuro”. (Francesco Gesualdi)

 

Le origini

Le multinazionali sono imprese che operano a livello planetario tramite una struttura organizzativa che si avvale della presenza in più paesi. Il primo abbozzo di multinazionale risale all’anno 1600 quando venne costituita l’East India Company, società britannica dedita al commercio con l’estremo oriente. Benché avesse il suo quartier generale in Inghilterra, disponeva di sedi a Shangai, Calcutta, Bombay, e molti altri porti disseminati sulle sue rotte. Due anni dopo in Olanda venne costituita la Dutch East India Company e dopo un secolo di concorrenza, le due contendenti preferirono fondersi in un’unica società. Così nacque la Honourable East India Company.

Eravamo agli albori del commercio mondiale, la potenza economica del momento era l’Inghilterra: importava materie prime dalle colonie ed esportava prodotti finiti negli altri paesi d’Europa, del Nord America, delle sue stesse colonie. Ma gradatamente lo situazione cambiò. Anche in Francia, Germania, Stati Uniti, si sviluppò l’industria manifatturiera e per il commercio internazionale lo scenario si fece più cupo perché in fase nascente le imprese chiedono protezione agli stati. Al riparo dei dazi le imprese locali agiscono indisturbate nei propri confini. Producono, vendono e crescono, finché non si accorgono che il mercato nazionale è troppo piccolo per le loro potenzialità. Allora si sviluppa un sentimento di amore-odio verso le misure di protezione. Amore per il riparo offerto contro l’invasione dei prodotti stranieri. Odio per l’impossibilità di penetrare nei mercati degli altri e quindi espandersi. E allora che fare?

La soluzione trovata, per conciliare protezionismo ed espansione, fu la colonizzazione aziendale in modo da invadere i mercati dall’interno. Il ragionamento era semplice: se non si può entrare nei mercati degli altri con prodotti che vengono da fuori, ci si può entrare producendo da dentro. Tant’è nel 1867 l’americana Singer si paracadutò in Gran Bretagna e dopo aver fondato una società, di proprietà sua, ma giuridicamente inglese, aprì a Glasgow una fabbrica di macchine da cucire autorizzate ad invadere l’isola perché made in England.

 

La struttura

Singer apre ufficialmente il corso moderno delle multinazionali, più propriamente detti gruppi multinazionali dal momento che non si tratta di imprese singole ma di tante società imparentate fra loro per il fatto di appartenere ad una medesima società che sta a capo di tutte. Di solito i gruppi hanno una struttura a piramide: in cima la società proprietaria dell’intero castello, anche detta capogruppo o holding; sotto le società possedute, anche dette filiali o controllate.

Da un punto di vista tecnico si definiscono multinazionali tutti i gruppi con filiali dislocate in più paesi. Dunque le loro dimensioni sono molto diversificate. Si va da quelle con società che si contano sulle dita di una mano a quelle con centinaia di filiali. Shell, una delle più grandi, è un amalgama di 1.700 società dislocate nei cinque continenti con la holding in Inghilterra. Chicco-Artsana, una delle più piccole, conta poche filiali in Europa e Hong Kong, con la casa madre in Italia.

 

La proprietà

Internazionalizzazione delle filiali, ma anche della proprietà della capogruppo, questa è un’altra caratteristica delle maggior parte delle multinazionali. E mentre alcune, come Ikea, Dole, Mars, sono ancora controllate dalle famiglie di origine, tutte le altre appartengono a un azionariato diffuso, sparso a livello mondiale. Spesso è inutile cercare persone in carne e ossa, salvo eccezioni i proprietari sono altre società ancora. Investitori istituzionali, così sono definiti in gergo le società che compaiono come proprietari: banche, assicurazioni, fondi pensione, fondi di investimenti.

Istituzioni che di mestiere raccolgono capitali fra il grande pubblico, dal giovane lavoratore che risparmia per farsi una pensione, al vecchietto che affida i propri risparmi al fondo di investimento perché gli è stato promesso un alto rendimento. Capitali raccolti e investiti dove i gestori prevedono di guadagnare di più, mettendo in chiaro che se le cose vanno male le perdite sono di chi ci ha messo i soldi, se invece vanno bene la fetta più grossa dei guadagni è per loro che si occupano della gestione.

Prendiamo come esempio Nestlè. Al dicembre 2010 la proprietà del gruppo è frammentata fra oltre 100 mila azionisti, nessuno dei quali è detentore di quote di controllo. Il 75% del capitale societario appartiene ad investitori istituzionali tra cui il fondo inglese Chase Nominees Ltd (10%) e la banca statunitense Citybank (7%).

Ormai anche il mercato dei capitali si è mondializzato, tutti cercano di raccogliere risparmi ovunque siano disponibili e investono su qualsiasi attività offra prospettive di guadagno. Ed ecco investitori cinesi che investono sulla borsa di Milano e investitori americani che investono sulla borsa di Tokyo. La conclusione è che il 37% del capitale sociale complessivo delle imprese europee è posseduto da investitori stranieri. (Financial Times 1 marzo 2010). La stessa Unicredit spa, capogruppo dell’omonimo gruppo bancario presente in numerosi paesi europei ed extraeuropei, è posseduta per il 45% da investitori istituzionali domiciliati soprattutto negli Stati Uniti (28%) e Regno Unito (21%), senza considerare che il 4,6% è posseduto addirittura dalla Banca Centrale Libica.

L’alto grado di internazionalizzazione delle filiali e del capitale fa delle multinazionali delle strutture apolidi, senza patria, tant’è sono anche dette transnazionali. Ciò nonostante si continua a dar loro una nazionalità, in base al paese in cui è domiciliata la capogruppo. Stando all’ultimo dato disponibile relativo a tutte le transnazionali, il paese con maggior numero di capogruppo è la Danimarca che ne ospita il 17%. Seguono Germania (15%), Svezia (9%), Svizzera (8,3%), Israele (8%), Usa (6%).

Ma se ci concentriamo sulle prime 500, la graduatoria cambia radicalmente. Al primo posto troviamo gli Stati Uniti con 140 capigruppo (28%). Seguono il Giappone con 68 capigruppo, la Francia con 40, la Germania con 39. Al quinto posto troviamo la Cina con 37 capigruppo.

 

Le dimensioni

Secondo le Nazioni Unite, i gruppi multinazionali sono 82.000 per un totale di 810.000 filiali, che complessivamente impiegano 80 milioni di persone, pari al 4% della forza lavoro mondiale. Il valore netto della loro produzione ammonta a 16000 miliardi di dollari, corrispondente al 25% del prodotto lordo mondiale. Inoltre controllano due terzi di tutto il commercio mondiale di beni e servizi.

Se compilassimo una lista delle prime 100 economie del mondo e vi includessimo sia i paesi, in base al loro prodotto interno lordo, sia le imprese, in base al loro fatturato, scopriremmo che 38 sono multinazionali. La prima compare al 24° posto ed è Wal-Mart con un fatturato superiore al prodotto interno lordo di Taiwan. La seconda è Exxon che compare al 31° posto prima della Thailandia. La terza è Chevron che compare al 49° posto prima della Repubblica Ceca (Elaborazione dati IMF e Fortune 2010).

Benché occupino solo 23 milioni di persone, nel 2010 le prime 100 multinazionali hanno cumulato profitti per 450 miliardi di dollari, che corrisponde a tutta ricchezza goduta da un miliardo di poveri assoluti nell’arco di un intero anno (Elaborazione dati Fortune 2010)

 

La concentrazione

Nel corso degli anni le multinazionali hanno teso a diventare i padroni assoluti nei propri settori, sgominando i concorrenti, o inglobandoli nei propri imperi. La tecnica è quella della fusione o acquisizione, come è successo a Parmalat nel 2011, quando venne assorbita da Lactalis. Operazioni di acquisto spesso effettuate con somme prese a prestito, poi recuperate con politiche di licenziamento o di ristrutturazione delle aziende acquistate.

Il risultato è che ci sono settori in cui poche multinazionali si spartiscono quasi tutto il mercato. Nel settore auto, le prime dieci controllano l’80% delle vendite mondiali, Toyota prima assoluta con l’11%. Nel settore dei pesticidi, cinque imprese controllano il 74% del mercato, Syngenta in testa.

Lo stesso tipo di dominio lo troviamo in ambito agricolo. Nel settore della banana tre multinazionali (Chiquita, Dole e Del Monte) controllano il 65% della produzione. Esse possiedono migliaia di ettari di terra, soprattutto in Centro America tramite società locali create a scopo strumentale. Queste potenti multinazionali, dispongono di tutti i mezzi necessari per trasportare le loro banane e farle maturare nei paesi di vendita. Dole, ad esempio,gestisce una flotta di 44 vascelli, 10 dei quali di sua proprietà diretta.

Le multinazionali non ci tengono a gestire in proprio la produzione e scelgono questa via solo quando non possono farne a meno. In tutti gli altri casi preferiscono sganciarsi dalla produzione, che è la fase più rischiosa, per concentrarsi su quella commerciale. Un caso di scuola è quello dei cereali e dei semi oleaginosi, la cui produzione avviene ad opera di milioni di agricoltori che però vendono tutti agli stessi acquirenti. Quattro o cinque multinazionali in tutto il mondo che fanno il bello e il cattivo tempo perché rappresentano il collo di bottiglia. Si tratta delle americane Cargill e ADM, della francese Dreyfus e della brasiliana Bunge.

Lo stesso copione si replica nel settore del caffè. La produzione è affidata a oltre 20 milioni di piccoli contadini, ma i grandi acquirenti internazionali sono una manciata, Nestlè in testa che da sola controlla il 12% di tutto il caffè che transita a livello mondiale. Sono loro che determinano il prezzo sempre nella direzione che fa comodo a loro, piuttosto in giù che in su, in base al tipo di operazione speculativa che hanno fatto. Perché, si sa, oggi che predomina la finanza gran parte dei guadagni si fanno con le scommesse di borsa sull’andamento del prezzo futuro di qualsiasi materia prima, sia essa mineraria o alimentare.

 

La lobby e i suoi effetti

Le imprese hanno sempre vissuto con insofferenza le regole, perché possono significare aggravio di costi, limiti alle vendite, divieti di produzione. In una parola profitti più bassi. Per questo si sono sempre dare un gran da fare per influire sui centri decisionali in modo da ottenere decisioni favorevoli ai loro interessi. In Inghilterra, fin dall’inizio della rivoluzione industriale, gli uomini d’affari avevano l’abitudine di fare anticamera per perorare le proprie cause presso i politici. Di qui il termine lobby che in inglese significa anticamera.

La lobby è tutt’oggi di gran moda, tant’è a Bruxelles si contano circa 15.000 rappresentanze imprenditoriali per indurre la Commissione Europea a compiere scelte gradite al mondo degli affari. Ma lo stesso fenomeno si riscontra in ogni altra capitale del mondo e in particolare dove risiedono i maggiori organismi internazionali.

Ovviamente le multinazionali sono in cima alla lista per questo genere di attività che molto spesso svolgono in forma associata per avere più peso. Alcuni nomi sono ERT (European Roundtable of Industrialists), USCIB (United States Council for International Business), ICC (International Chamber of Commerce), TBD (Trans Atlantic Bussiness Dialogue). Organismi di cui fanno parte Coca-Cola, Procter & Gamble, Danone, Unilever, Fiat e molte altre.

Fra i principali colpi messi a segno dalla lobby delle multinazionali, c’è la creazione, nel 1995, dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, la famosa OMC o WTO per dirla all’inglese. Formalmente lo scopo dell’OMC è favorire l’espansione del commercio internazionale. Ma i fatti dimostrano che il suo proposito è molto più ampio. Il suo obiettivo è costruire un nuovo ordine economico mondiale che potremmo definire “globalizzazione degli affari”.

La globalizzazione è il tentativo di trasformare il mondo intero in un unico mercato, un’unica piazza finanziaria, un unico spazio produttivo. Questa esigenza non arriva a caso, ma con l’affermarsi delle multinazionali, che hanno dimensioni tali da non poter rimanere confinati all’interno delle singole nazioni. Per crescere hanno bisogno di poter piazzare i loro prodotti ovunque, hanno bisogno di poter fare i loro investimenti dove guadagnano di più, hanno bisogno di produrre dove i costi sono più bassi. Ma questo sogno non si può realizzare finché gli stati mantengono la libertà di fare come vogliono in materia di dazi, di rispetto ambientale, di rispetto sanitario, di movimento dei capitali, di investimenti. Così è stata creata l’OMC che ha il compito di scrivere le regole che tutti gli stati debbono rispettare ogni volta legiferano su materie che hanno a che fare col commercio, con la produzione, con gli investimenti e altri temi che hanno grande importanza se non per tutte le multinazionali, per quelle più potenti nei singoli settori. E ogni volta l’ordine è chiaro. Se bisogna scegliere fra la tutela dei consumatori, dei lavoratori, dell’occupazione, dei piccoli produttori e l’interesse delle multinazionali e quest’ultimo che deve prevalere.

 

Strategie di profitto

Dunque, il progetto che si sta perseguendo con la globalizzazione è la costruzione di un mondo che, ormai libero da ogni regola a protezione del lavoro, della salute, dell’ambiente, della sicurezza sociale, lascia campo aperto alle uniche regole che piacciano alle imprese: il profitto, la concorrenza, il mercato, la speculazione, l’accumulazione.

Ma proprio quando la globalizzazione ha cominciato a diventare realtà, le multinazionali hanno fatto un’amara scoperta. Hanno scoperto che il mercato mondiale è piccolo perché le persone che possono comprare i loro prodotti non vanno oltre il 30% della popolazione mondiale. Tutti gli altri sono talmente poveri da non contare ai fini del mercato. Per questo fra le multinazionali si è scatenata una concorrenza feroce per portarsi via i pochi clienti facoltosi. Un metodo infallibile è la diminuzione dei prezzi, ma questa scelta ha l’inconveniente di far diminuire i profitti, a meno che non si riesca a far diminuire contemporaneamente anche i costi di produzione. Ecco perché oggi giorno non si parla d’altro che di competitività in nome della quale le imprese hanno ottenuto che si giungesse anche alla globalizzazione della produzione. Così il mondo è stato trasformato non solo in un unico mercato, ma anche in un unico villaggio produttivo all’interno del quale le imprese possono spostare la produzione nel paese che offre più vantaggi.

La tendenza è di mantenere al Nord le fasi di lavoro che richiedono molta tecnologia e di trasferire al Sud quelle che richiedono molto lavoro o che sono altamente inquinanti. Così può succedere che un prodotto faccia varie volte il giro del mondo prima di essere messo definitivamente in vendita.

Il costo che varia di più da un paese all’altro è sicuramente quello del lavoro con differenze che vanno anche da 1 a 50. Ecco perché tutte le attività produttive ad alta intensità di mano d’opera, come scarpe, vestiario, giocattoli, microcircuiti, si spostano sempre di più verso paesi a basso reddito, provocando sfruttamento del lavoro al Sud, disoccupazione e perdita di diritti al Nord.

Ma le multinazionali valutano attentamente anche la legislazione ambientale, prediligendo sempre i paesi più permissivi mentre si ingegnano per pagare meno tasse possibile approfittando del fatto che il mondo è formato da paesi con regimi fiscali molto differenziati. Alcuni di essi sono definiti paradisi fiscali perché applicano aliquote fiscali irrisorie e garantiscono la totale segretezza degli investitori. Alcuni esempi sono le Isole Cayman, Liechtenstein, San Marino, Principato di Monaco. La strategia delle multinazionali consiste nel costituire filiali in tali territori, facendole passare come i beneficiari finali degli utili, attraverso operazioni di fatturazioni fasulle fra filiali. Un esempio di multinazionale strutturata per convogliare buona parte degli utili nei paradisi fiscali, soprattutto Olanda e Liechtenstein, è Ikea.

Mentre le Isole Vergini Britanniche, non più grandi di 100 chilometri quadrati, ospitano, da sole, 700.000 società straniere, si stima che l’ammontare complessivo dei capitali depositati nei paradisi fiscali ammonti a 7000 miliardi di dollari. Si calcola anche che il ricorso ai paradisi fiscali provochi un danno erariale mondiale di oltre 255 miliardi di dollari l’anno (“Places in the sun”, The Economist, February 22, 2007).

 

Bibliografia essenziale

Centro nuovo modello di sviluppo, Geografia del supermercato mondiale. Produzione e condizioni di lavoro nel mondo delle multinazionali, EMI, 2001

W. Mutunga, F. Gesualdi, S. Ouma, Consumatori del nord, lavoratori del sud. Il successo di una campagna della societa civile contro la Del Monte in Kenya, EMI, 2003

AA.VV, Guida al consumo critico, EMI, 2008

Francesco Gesualdi, L’altra via. Programma per un'economia della sazietà. Altreconomia, 2009

Werner-Lobo Klaus, Il libro che le multinazionali non ti farebbero mai leggere, Newton Compton, 2009.

Monica di Sisto, Un commercio più equo, Altreconomia, 2011

Rivista Altreconomia

 

(Scheda realizzata con il contributo di Francesco Gesualdi del Centro nuovo modello di sviluppo)

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Il potere politico delle multinazionali: il caso McDonald’s