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Come fare giustizia in Ucraina?
Economia di guerra
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Immagine: Pxhere.com
Un tribunale speciale per giudicare i crimini commessi dai russi. A chiederlo è il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, in collegamento con il Parlamento Europeo riunito lo scorso 14 dicembre a Strasburgo in occasione dell’assegnazione del premio Sakharov per la libertà di pensiero al popolo ucraino. Si tratta in realtà della replica di un’istanza lanciata in più occasioni da Zelensky, fin dalle prime fasi del conflitto, ed echeggiata anche da organizzazioni internazionali governative e non: ad esempio lo scorso 7 aprile l’Assemblea generale dell’ONU ha votato a maggioranza dei 2/3 dei suoi membri a favore della sospensione della Russia dal Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani dinanzi alle prove schiaccianti di violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani in Ucraina avvenute nel corso di una guerra di aggressione contro uno Stato sovrano, tutti elementi che costituiscono una inosservanza dell’essenza stessa dello Statuto dell’ONU. Tuttavia tale decisione non è affatto automatica (né scontata); prima di allora è stata registrata solo nel 2011 nei confronti della Libia di Gheddafi. Anche Amnesty International, a una settimana dall’inizio della guerra aveva lanciato un monito a “tutte le persone coinvolte in tale crimine [di aggressione] affinché siano chiamate a rispondere dal punto di vista individuale, personale e collettivo, dei tanti crimini che hanno finora caratterizzato l’invasione dell’Ucraina”. Fin da subito c’è stata quindi una forte attenzione alla raccolta documentaria delle violazioni del diritto internazionale umanitario e delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, anche da parte della stessa Corte Penale Internazionale che immediatamente ha disposto l’invio di ispettori in Ucraina.
L’ultimo appello del presidente ucraino giunge però in un’Unione Europea sollecitata alla fine di novembre dalla proposta della presidente della Commissione Europea, Ursula Von Der Leyen, di creare un “Tribunale speciale” incaricato di perseguire i crimini commessi da Putin e dai suoi ministri in Ucraina. Negli intenti della possibile iniziativa vi è senz’altro la volontà di puntellare ulteriormente la pressione sull’aggressore russo dinanzi alle difficoltà attuali del percorso diplomatico per giungere alla pace o al cessate il fuoco. Anche la risoluzione 2022/2896 del 23 novembre 2022 del Parlamento Europeo, che ha riconosciuto la Federazione russa “come Stato sostenitore del terrorismo”, è stato un tassello in questa direzione: il documento elenca 40mila crimini di guerra sinora documentati e segnala oltre 24mila bombardamenti con danni alle infrastrutture civili, nello specifico 42.818 abitazioni residenziali, 1.960 scuole, 396 strutture mediche, 392 edifici culturali, 87 edifici religiosi e 5.315 infrastrutture idriche ed elettriche. Inoltre la risoluzione accusa Mosca di essere responsabile della crisi mondiale della sicurezza alimentare, andando così a collegarsi alla recente decisione dell’UE di commemorare la Holodomor, la carestia del 1932-33 determinata dalle politiche di Stalin che causò la morte di 4 milioni di contadini in Ucraina e che diversi Paesi stanno riconoscendo come un vero e proprio atto di genocidio.
È in questo contesto di pressione politica, a cui si unisce quella determinata dalle sanzioni economiche, che è giunta dalla Commissione Europea la proposta di un Tribunale speciale per i crimini commessi in Ucraina. Ovvio che in questo caso appaiono del tutto fuori luogo i commenti di chi auspica l’apertura di analoghi Tribunali in territori ben più lontani (in Palestina, Congo, Siria e tanti altri luoghi teatri di sanguinosi conflitti, tanto per citarne alcuni letti nei principali commenti sui social): le risoluzioni dell’UE possono vertere su qualsiasi argomento ma avrebbero davvero un limitato senso in caso di territori extra-europei. La domanda però sorge immediata: perché non auspicare un intervento della Corte Penale Internazionale? Semplice: la CPI è impossibilitata a intervenire per il crimine di aggressione in quanto né l’Ucraina né la Russia ne sono Stati parti e questo li pone automaticamente al di fuori della sua competenza. Tuttavia l’Ucraina ha attivato nel 2014 una speciale procedura secondo la quale accetta la competenza del CPI pur non essendone membro per i crimini (ipotizzati) commessi in territorio ucraino tra il 21 novembre 2013 e il 22 febbraio 2014 in tre zone: Maidan, Crimea e Donbass. Il Tribunale Penale Internazionale potrebbe intervenire sui fatti accorsi dal 24 febbraio scorso proprio sulla base di questa adesione “speciale” dell’Ucraina ma solo per i crimini di guerra (come la tortura, gli attacchi ai civili, gli stupri di guerra) e i crimini contro l’umanità (come la sparizione forzosa di persone), non per il reato di aggressione. Gli emendamenti di Kampala alla Statuto della CPI (sottoscritti nel 2010 e in vigore nel 2018) prevedono che la Corte può esercitare la giurisdizione su un crimine di aggressione solo se commesso da uno Stato Parte (e la Russia non lo è). A meno che non sia lo Stato aggressore ad autorizzare l’avvio della procedura, cosa molto improbabile. Altrettanto improbabile che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, di cui la Russia è membro permanente con diritto di vito, chieda un intervento della Corte Penale Internazionale; l’unica soluzione sarebbe un voto dell’Assemblea Generale dell’ONU, atto a scavalcare l’immobilità del Consiglio di Sicurezza, dove però non è affatto certo il raggiungimento della maggioranza.
Ecco perché la creazione di un Tribunale ad hoc, come fatto per il Ruanda o per la ex Jugoslavia ma in anni pre-CPI (e al di fuori della cornice istituzionale dell’ONU), appare una soluzione incredibilmente più “facile” da percorrere pur con le perplessità giuridiche legate alla sua istituzione nonché le consuete valutazioni sulla sua imparzialità. La parola va in ogni modo prima ceduta al cessate il fuoco; senza di quello, ogni forma di giustizia è impossibile da attuare.
Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.