Bolivia: resta Mesa ma la protesta continua

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Il Parlamento della Bolivia ha respinto con voto unanime le dimissioni presentate dal presidente Carlo Mesa che resterà dunque al potere fino all'agosto del 2007, quando scadrà il suo mandato. Prima della votazione del Parlamento, il presidente aveva sottoscritto un accordo con le principali forze politiche del Paese per garantire la governabilità attraverso una tregua sociale. L'accordo è stato firmato da tutti i partiti boliviani, eccetto il partito d'opposizione Movimento al socialismo (Mas) di Evo Morales e il Movimento indigeno Pachakuti (Mip) di Felipe Quispe, i quali hanno comunque votato perché Mesa restasse al governo. In un appello lanciato proprio a Morales, suo principale oppositore, Mesa gli ha chiesto di "unirsi allo sforzo nazionale" riconoscendogli "una radice patriottica e di impegno per il bene della Bolivia", ma allo stesso tempo ha chiesto a tutti i boliviani di manifestare oggi "per opporsi alla politica dei blocchi stradali".

In un comunicato stampa firmato dai leader dei movimenti coinvolti nelle proteste di piazza viene sottolineato "come le dimissioni presentate dal Presidente Carlos mesa sono una chiara minaccia al popolo boliviano, attraverso la quale, sotto lo spauracchio della rottura della istituzionalità democratica, si pretende che la Bolivia rinunci ai suoi diritti legittimi sopra i suoi idrocarburi". Di fatto le mobilitazioni non chiedevano le dimissioni di Mesa ma l'allontanamento di Aguas del Illimani, azienda boliviana della multinazionale francese Lyonaisse des Eaux. Per questo le organizzazioni sociali hanno deciso di mantenere forte la mobilitazione in tutto il paese allo scopo di chiedere l'approvazione di una nuova legge sugli idrocarburi che includa il 50% di regalie e che restituisca la sovranità nazionale di questa risorsa.

A questo si aggiunge la richiesta di approvazione della legge per la convocazione dell'Assemblea Costituente rispettando la proposta del movimento indigeno e campesino.

I parlamentari del Congresso hanno poi approvato un disegno di legge che aumenta le quote, destinate a restare nel Paese, degli introiti derivanti dallo sfruttamento dei giacimenti di petrolio e di gas naturale. L'iniqua ripartizione dei proventi degli idrocarburi e la gestione di servizi pubblici (come l'acqua) affidata a società straniere sono all'origine della nuova protesta di massa. Lo scorso 18 luglio si è tenuto un referendum sugli idrocarburi voluto dal presidente boliviano Carlos Mesa e sostenuto dalla Banca Mondiale, il BID (banca interamericana per lo sviluppo) e dal vicepresidente degli Stati Uniti, Dick Cheney, che per bocca del suo consigliere ha fatto sapere che qualora il referéndum fosse stato bloccato il paese si sarebbe "suiciato".

Tra i principali sponsor la Total, che ha sborsato 56.000 dollari per pagare gli esperti che hanno confezionato le domande in modo da tutelare, a prescindere dall'esito del voto, le attivita' delle multinazionali da decenni impegnate a spremere il paese, lasciando nella miseria due terzi dei boliviani che ancora soffrono la fame. Anche la Repsol ha avuto un ruolo centrale, essendo proprietaria di un terzo di tutte le riserve di gas del paese. Ancor prima che si votasse il 18 di luglio, la Repsol ha visto apprezzate le sue azioni di un 11% dalla Banca di Investimenti svizzera UBS, seconda la quale il referéndum avrebbe sicuramente rafforzato la posizione dominante della multinazionale spagnola. Lo stesso dicasi per i vantaggi ottenuti da Petrobras, Shell, Enron e Canadian che, secondo gli analisti finanziari, avrebbero risolto definitivamente i problemi legati alle esportazioni, viste le garanzie date dal governo boliviano sul rispetto dei contratti gia' sottoscritti.

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