Tunisia al voto: la prima prova di vera democrazia

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Domenica 26 Ottobre, Giovedì 13 Novembre: appuntamenti con la Storia. Se esistono giorni in cui la retorica non costituisce un semplice orpello e in cui l’echeggiare degli eventi -passati e futuri- si fa percettibile, possiamo dire di trovarci al loro cospetto: quelle due date vedranno milioni di tunisini affollarsi nei seggi allestiti in tutto il Paese, per dare un nome, un volto, un colore politico alla prima legislatura post-rivoluzionaria e post-costituente; al primo (vero) Presidente della Repubblica, al primo Presidente del popolo. Fra di essi, uomini e donne, giovani e vecchi, classi agiate e sottoproletari spiantati, persone istruite e semianalfabeti, pieni di entusiasmo. Tutti diversi, tutti egualmente liberi e determinati. Perciò, se quanto detto può apparire ridondante, si tenga a mente un punto: alle politiche del 26 Ottobre e alle presidenziali del 23 Novembre si deciderà l’avvenire dell’unico esperimento di democrazia araba finora riuscito. Quanto basta per far tremare i polsi.  Quanto basta per istillare gli ultimi dubbi e alimentare spaccature.  

Non è dunque un caso che il Paese sia diviso. Tanto, che perfino le due date, ora menzionate, sono state il frutto di un lungo braccio di ferro, che ha interessato gli schieramenti dell’intero arco costituzionale, opponendo quanti desideravano anteporre le presidenziali, in funzione di una maggiore chiarezza sulle prospettive di governo, a quanti sostenevano la necessità insediare, in prima battuta, il nuovo Parlamento, in ossequio ad una Carta che fonda un sistema misto -sul modello francese- ma resta più orientata al parlamentarismo. La contesa ha visto vittoriosi proprio i “parlamentaristi”: 12 partititi si sono espressi a favore della seconda soluzione, solo 6 hanno votato in difesa della prima. Pertanto, avranno luogo prima le politiche. Parranno quisquilie, ma la scelta, poi ratificata dall’I.S.I.E. -l’Istanza Superiore e Indipendente per le Elezioni- ha avuto ripercussioni decisive sulle scelte strategiche di alcuni partiti. La più significativa riguarda Ennahda, la forza di matrice confessionale che, allo stato attuale, rappresenta la maggioranza relativa del consenso: essa non proporrà alcun candidato alla Presidenza della Repubblica. La motivazione ufficiale evoca la volontà di porsi come forza inclusiva, restia allo scontro muro contro muro; una maggiore malizia indurrebbe a pensare che la finalità (autentica) sia diversa: far convergere i propri voti su candidati indipendenti, indebolendo la posizione del vecchio Caid Essebsi, il favorito; l’uomo che guida Nida Tunes: partito laico, principale competitore dei filoislamici di Rachid Ghannouchi.  

Ciò detto, maggior conseguenza della condizione di disomogeneità è un’altra: la presenza, sulla scena pubblica, di più di 110 partiti, corrispondenti ad una serie inenarrabile di candidature. Un contesto insidioso, oltreché confuso, poiché sono molti i nomi del vecchio regime, che stanno cercando di garantirsi una sopravvivenza politica, infiltrandosi fra le liste. E se ogni esperienza rivoluzionaria contempla una certa dose di “riciclati”, giacché le epurazioni totali rischiano di compromettere quel patrimonio di competenze che risultano indispensabili al buon funzionamento della macchina statale, le proporzioni del fenomeno stanno però assumendo proporzioni inquietanti. Soprattutto a fronte di un recente rapporto confidenziale, del Fondo Monetario Internazionale, secondo il quale il 51% del patrimonio mobiliare e immobiliare tunisino si trova ad essere nelle mani di famiglie legate a doppio filo al passato regime. È chiaro che se questi settori sociali dovessero esprimere anche una rappresentanza politica, di un certo peso, la Tunisia del “nuovo vento democratico” rischierebbe di apparire come una semplice operazione di belletto. Lo scenario, del resto, non pare privo di fondamento, dal momento che Destour, partito di aggregazione di un buon numero di questi “ripescati”, si propone -a detta dei sondaggi- come possibile ago della bilancia, nella formazione del prossimo governo.

Occorre rischiarare, al più presto, tutte le zone d’ombra. Anche perché il quadro generale invoca, sempre più, una gestione limpida e non conflittuale della cosa pubblica. Lo richiede un’economia che non riesce a sostenere, agli attuali tassi di crescita, il deficit statale; lo impone la minaccia, sempre presente e sempre infida, del terrorismo; lo esige la crisi politica regionale, che ha portato ben 2 milioni di rifugiati libici, in un Paese che non arriva agli 11 milioni di cittadini; lo chiedono a gran voce quei tanti che si apprestano ad inserire la propria scheda nell’urna, con l’animo gonfio di speranza. Per loro, e per tutti quei martiri che non avranno la possibilità di farlo, Tunisi dovrà rinunciare i troppi belletti, che mal celano il volto degli impresentabili; e dovrà sostituire ad essi uomini retti, e soprattutto progetti. Possibilmente credibili.

Omar Bellicini

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