Papa Africa in Centrafrica: aprire porte per andare oltre

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È scontato chiedersi dove si trovi la Repubblica Centrafricana. Il nome dice tutto. Grande il doppio dell’Italia (oltre 620 mila km2), ma con una popolazione dieci volte inferiore (circa cinque milioni contro i quasi sessanta milioni dell’Italia). Cosa significa questo? La pressione antropica è minima: la densità abitativa è di meno di sei persone per km2; poco meno di un milione vive a Bangui, la capitale, un’area urbana totalmente decentrata rispetto al paese, protesa verso sud, situata lungo il fiume Ubangi, il confine meridionale con la RDC.

È un territorio ricco, il Centrafrica: conformato da una fitta rete idrografica, da altipiani di savana e catene montuose di una certa rilevanza. Purtroppo (o per fortuna) nessuno sbocco al mare. Eppure, le storie che si leggono non lasciano spazio all’immaginazione, non si intravvedono le bellezze: il paese “fantasma” viene descritto come un “inferno” violento, “sparito” sotto “ondate di omicidi”. È un Paese in guerra. Ma di questa guerra pochi, pochissimi raccontano. 

L’immagine del “cavallo rosso fuoco” dell’Apocalisse usata da Zanottelli per definire l’imperversare delle guerre di oggi è particolarmente efficace per provare a capire a che cosa stiamo alludendo. “A colui che lo cavalcava fu dato potere di togliere la pace della terra e di far sì che si sgozzassero a vicenda , e gli fu consegnata una grande spada”(Ap.6,4). La “grande spada” governa oggi la terra centrafricana, nel cui ventre sono contenuti tesori preziosi: diamanti, oro e petrolio. La spada serve per conquistare il tesoro e difenderlo. Con questa affermazione, si potrebbe anche chiudere qui l’articolo.

Ma la guerra in Centrafrica non è raccontata in questo modo. Si dice sia una “guerra di religione” tra cristiani e musulmani, una guerra etnica tra le “genti della savana” (quelle del nord, Sara, Gbaya, Runga e Goula) e le “genti della foresta e del fiume” (quelle del sud, Ngaka o Yakoma), una guerra civile. Civile? Ma può mai essere civile una guerra? Una guerra è sempre incivile.

Dietro le barricate delle questioni etniche o religiose, si celano sempre molteplici questioni economiche. I conflitti etichettati sotto vari appellativi sono sempre l’esito della legge del più forte che pensa di meritare di più di un altro. Il movente è la ricchezza, il guadagno, lo sviluppo (possibilmente individuale). Le matrici culturali degli appellativi più diffusi sono solo specchietti per le allodole, camuffamenti non più tanto originali che nascondono il grande orrore del XXI secolo: l’idea che qualcuno abbiamo più diritto/i di altri. In questo grande orrore, chi non ha diritto è sicuramente l’Africa. “L’Africa è vittima; è sempre stata sfruttate dalle altre potente: gli schiavi venduti prima. Le grandi ricchezze poi; non si pensa alla dignità delle persone; l’Africa è martire dello sfruttamento e non capiscono che questa forma di viluppo fa male all’umanità”. Le parole sono di papa Francesco.

Così anche in Centrafrica. Violenze etniche? Scontri religiosi? O tentativi di contendersi la supremazia in alcune aree del paese da parte di multinazionali e potenze internazionali come Francia, Cina e Iran? Queste fanno la corte al governo di Bangui che in nome delle lusinganti promesse di investimento e sviluppo rilascia concessioni e svende le sue ricchezze (e le sue genti). È la maledizione delle materie prime, la principale fonte di rendita in particolare per i settori agro-industriale, energetico e del legno. L’effetto finale di questo continuo flusso di interessi verso la “natura” centrafricana è uno scacco senza fine che sta mettendo in ginocchio una popolazione vulnerabile, un’economia debole e uno Stato che, senza forse non è mai esistito, privo di qualsiasi capacità istituzionale. Indipendente dal 1960, il Centrafrica ha vissuto cinquant’anni di regimi autoritari con l’unica strategia politica di mantenimento del potere attraverso la violenza: Boganda, Dacko, Bokassa – che arriva a proclamarsi presidente a vita –, ancora Dacko, Kolingba, Patassé, Bozizé. Ogni passaggio è segnato da colpi di stato. Il tutto sotto l’occhio vigile ed interessato della Francia che, a sua volta, non ha attuato altra strategia se non quella del bastone e della carota. La Francia, paese fornitore di armi “leggere” (insieme all’Ucraina). La Francia paese sfruttatore. La Francia, tessitrice di relazioni perverse con i vicini Ciad e Sudan. La Francia responsabile del post Bozizé (ma anche del pre), ma anche della sua destituzione, nel marzo 2013, ad opera del movimento Seleka (che significa “coalizione”). Un gruppo formatosi nel nord-est del paese inizialmente costituito con milizie straniere provenienti dal Darfur (Sudan), probabilmente impastato con cellule jihadiste e alqaediste legate a Boko Haram e ad altri gruppi che operano in altri paesi del Sahel, Mali e Ciad, e in Libia. Il leader del movimento Seleka, Djotodia (24 marzo 2013 – 10 gennaio 2014) si è trovato a gestire un contesto di assoluta assenza di autorevolezza delle istituzioni e delle leggi alimentando una situazione di già incontrollabile disordine. La sua permanenza alla guida del Paese non è durata molto, ben presto sostituito da Catherine Samba-Panza – già sindaco di Bangui – alla quale, nel 2014, viene affidata la guida della transizione.

Nel caos, Seleka si è rinforzato in combattenti e in armamenti contro tutto ciò che rimaneva fedele al Centrafrica di Bozizé. Dall’altro lato sono nati dei movimenti di autodifesa che sono presto confluiti insieme dando vita ad anti-Balaka, di ispirazione cristiana. Come nel caso dei membri di Seleka, anche per gli anti-Balaka, ci chiediamo in nome di quale religione venga sparso così tanto sangue. In questa “battaglia” ben orchestrata dall’alto da degli assassini, le vittime sono le persone, siano esse simpatizzanti per Seleka o per anti-Balaka, credenti in un dio o in un altro, originari del nord, del sud, dell’est o dell’ovest, comunque centrafricani. Il numero dei morti, solo dio lo conosce! La Francia (chiaramente non da sola) ipocrita, indifferente nei confronti della sofferenza di una popolazione priva di diritti, senza futuro: scuole chiuse, ospedali mal funzionanti, paura, violenze di ogni genere. Il Centrafrica è una sorta di grande mercato della morte, in cui chi muore ha meno valore dell’oro, dei diamanti e del petrolio. Chi muore è quasi in più, un intralcio da rimuovere.

Non è un caso che papa Francesco abbia voluto anticipare i tempi di apertura del Giubileo, prevista l’8 dicembre. Il Centrafrica è stato fin da subito la meta, tanto voluta, del suo viaggio in Africa. Lì è stata aperta la porta santa che ha inaugurato il Giubileo, quella della cattedrale di Bangui, domenica 29 novembre 2015. Nulla è casuale. Giubileo significa perdono, misericordia, un potente “strumento” che “possiede una valenza che va oltre i confini della Chiesa. Essa ci relaziona all’Ebraismo e all’Islam, che la considerano uno degli attributi più qualificanti di Dio” – anche questo lo affermato papa Francesco. Quali implicazioni possa avere in futuro, lo staremo a vedere. Se il papa auspica che Bangui sia la capitale spirituale del mondo, noi auspichiamo che tutto il Centrafrica diventi il centro delle attenzioni del mondo, non quelle predatorie, però. Il Centrafrica e non solo Bangui perché l’accentramento dell’attenzione su una capitale geograficamente decentrata e lontana dal paese è un errore storico e politico che è già stato commesso. 

Sara Bin

(1976) vive in provincia di Treviso e lavora a Padova. É dottore di ricerca in geografia umana; ricercatrice e formatrice presso Fondazione Fontana onlus dove si occupa di progetti di educazione alla cittadinanza globale e di cooperazione internazionale; è docente a contratto di geografia politica ed economica; ha insegnato geografia culturale, geografia sociale e didattica della geografia. Collabora con l’Università degli Studi di Padova nell'ambito di progetti di educazione al paesaggio e di formazione degli insegnanti. Ha coordinato lo sviluppo e l'implementazione dell'Atlante on-line in collaborazione con il Ministero dell'Istruzione, del'Università e della Ricerca. Dal 2014 fa parte del gruppo di redattori e redattrici di Unimondo. Ha svolto attività didattica e formativa in varie sedi universitarie, scolastiche ed educative ed attività di consulenza nell’ambito della cooperazione allo sviluppo. Tra i suoi principali ambiti di ricerca e di interesse vi sono le migrazioni, la cittadinanza globale, i progetti di sviluppo nell’Africa sub-sahariana, lo sviluppo locale e la sovranità alimentare. Ha svolto numerose missioni di ricerca e studio in Africa, in particolare in Burkina Faso, Senegal, Mali, Niger e Kenya. E' membro dell'Associazione Italiana Insegnanti di Geografia e presidente della sezione veneta

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