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Nel Cile di Pinochet, quello reale
Religione
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Foto: Primapaginaonline.org
Luigi Di Maio è un po’ ignorantello. Ha parlato di Pinochet dittatore in Venezuela. Svista imperdonabile. Ma ancora più imperdonabile è che l'Italia non ricordi l'italiana Valeria Valentin, la suora che ha salvato piú di 300 oppositori a Pinochet. E che l'ambasciata cilena in Italia abbia premiato tutti i diplomatici italiani dell'epoca a Santiago ma si sia scordata proprio di lei. Se di Maio merita un 4 in storia, il governo italiano e l'ambasciata cilena meritano uno 0. Senza esami di recupero.
Bocciato Di Maio ma anche l’ambasciatore del Cile in Italia, che, un paio di mesi fa, ha premiato quattro nostri diplomatici che, al tempo del golpe Pinochet nel 1973, diedero asilo a centinaia di dissidenti cileni presso la ambasciata italiana di Santiago. Ma chi materialmente accompagnò i dissidenti alla nostra ambasciata, salvando loro la vita? Era una suora e veniva dall’Alto Adige, dalla Val Badia: il suo nome era Valeria Valentin, allora segretaria del vescovo della capitale cilena. Arrestata più volte, rischiò di finire fra i desaparecidos, coloro che scomparivano fra le fauci della polizia. Solo l’intervento del Vaticano permise di aver salva la vita, in cambio dovette abbandonare il Cile.
Nel mattatoio cileno Valeria Valentin salvò centinaia di persone. Mai raccontò la sua storia a giornalisti e conoscenti, non se ne vantava, neppure il figlio sapeva del suo passato, “mamma, tu eri una suora?”, chiese, sbarrando gli occhi e guardandola. La intervistai e il giornale Alto Adige aprì l’edizione del 28 ottobre del ’99, raccontando la sua storia. Ma da quel giorno non rilasciò più interviste, anche se la cercarono i media nazionale: lei volle di nuovo l’oblio. Valeria Valentin è morta alcuni di anni fa. Ecco la sua storia.
Nata in Val Badia, Valeria era la segretaria personale del vescovo Fernando Ariztià. In questo ruolo riuscì a tessere una rete clandestina, con l'appoggio delle alte cariche della Chiesa. Fu più volte interrogata e in più di un'occasione il cardinale di Santiago Silva Enriques dovette telefonare personalmente a Pinochet, minacciando una crisi diplomatica, se non avesse scarcerato la suora altoatesina. Il ricordo di Valeria Valentin era lucido, preciso. "Partii per il Cile, eravamo in quattro missionari, e decidemmo di andare a vivere tra i poveri, nella baraccopoli di Santiago. Abitavamo anche noi nella baracche di legno e condividevamo la stessa vita, la stessa povertà. Diventai la segretaria di don Fernando Ariztià, chiamato dal regime il ‘Vescovo Rosso’. Vidi la repressione: venivano ammazzati tutti gli oppositori del regime, persone povere, operai, studenti… Quelli che rifiutavano la repressione erano tutti comunisti. Noi avevamo scelto l'opzione radicale a favore della gente oppressa, calpestata, e agivamo in nome del Vangelo. Nel primo periodo della dittatura si vedevano i cadaveri galleggiare sul fiume che attraversa Santiago; colpivano un po' qua e un po' là, per dare ‘l'esempio’. Ho visto con i miei occhi i militari uccidere un bambino e ferirne un altro, che si è salvato dai colpi del fucile scappando e proteggendosi con un braccio. La pallottola gli ha perforato un arto. Il bambino morto lo hanno caricato sulla camionetta e se lo sono portati via, mentre l'altro l'ho soccorso e siamo riusciti a salvarlo.
Il vescovo Ariztià aveva dato vita al Comitato della Pace all'indomani del golpe e noi, che eravamo un gruppo molto unito di missionari, decidemmo di costituire una rete clandestina per salvare la gente perseguitata. Ero la segretaria del vescovo e avevo un rapporto ottimo anche con il resto della Chiesa cilena, ad esempio con i vescovi dei poveri, com'erano chiamati Jorge Hurton e Enrico Alverar e con il famoso cardinale Silva Enriques. Avevo, dunque, un ruolo nel quale potevo organizzare, coordinare, dirigere e ampliare la nostra rete di collaboratori. Il nucleo centrale era composto da 10-12 persone.
Tra loro, ricordo Mariano Puga, Pepe Aldunate, Roberto Bolton, Raffael Moroto. Credo che abbiamo salvato più di 300 persone, forse molte di più. Una delle tecniche era quella di nascondere i ricercati nelle case o all'interno della baraccopoli, in ospedale o nei conventi e poi di notte farli raggiungere le ambasciate e la Nunziatura, aiutandoli a oltrepassare il muro di cinta. A quel punto erano in salvo. Poi, per farli espatriare non era più un problema. Dopo che erano entrati nelle sedi diplomatiche erano condotti all'aeroporto per essere espatriati. All'ambasciata italiana c'era allora il console Roberto Toscano che ci fu di grande aiuto, venne in nostro soccorso. Poi i controlli dei militari cileni s’intensificarono attorno alla nostra ambasciata, c’erano le guardie con i cani che controllavano chi entrava e chi usciva. Non era più possibile entrare dall’ingresso principale. Allora, noi arrivavamo di notte ed io mi mettevo con le spalle al muro e li aiutavo a scavalcare il muro. I telefoni con l’ambasciata erano controllati, quindi abbiamo affinato la tecnica. Telefonavo ai nostri amici che erano all’interno dell’ambasciata e loro mi dicevano “due Marlboro, 3 Hilton, ecc.”. La cifra indicava il numero di quelli che potevamo far scappare senza farci sorprendere durante il giro delle guardie, e la marca di sigarette specificava la via dove si doveva scavalcare il muro. L'unico che non venne in nostro soccorso era il nunzio apostolico, Dos Santos. Ma un giorno, in sua assenza perché era a Roma, entrammo di forza nella sede. Poi abbiamo informato i giornalisti stranieri, così non poterono scacciare gli occupanti ricercati. Il fatto è che nessuno è uscito dal Cile così in fretta come queste 27 persone: alle 11 di sera di quello stesso giorno erano già sull'aereo, destinazione Italia. Il nunzio voleva evitare uno scandalo. Fin dal primo giorno andavamo allo Stadio National, dove avevano creato un lager, c’erano gli specialisti venuti dal Brasile con i loro attrezzi di tortura. Lì, nello stadio è stato ucciso Victor Jara, che cantava canzoni di libertà con gli altri prigionieri. Gli hanno tagliato la mano davanti a tutti, perché era un grande chitarrista; ha continuato a dirigere il coro dei rifugiati, poi l'hanno ammazzato. Noi andavamo allo stadio con altre donne, per sapere che dov'erano i loro mariti, i loro padri, i loro figli.
Mi hanno scoperta dopo il caso del sindacalista Gutierrez. Ma ho avuto una grande fortuna, per quasi quattro anni ho potuto lavorare clandestinamente. Anche se sospettavano di me, ma come europea e come missionaria avevo una certa libertà. Come segretaria del vescovo ero ancora più protetta, perché Pinochet voleva evitare lo scontro con la Chiesa. Anche se il mio vescovo e altri prelati creavano non poche difficoltà al governo cileno, anche con denunce pubbliche. Sono stata interrogata quando ho aiutato Nelson Gutierrez, come dicevo. Aveva avuto uno scontro con i militari ed era stato ferito alla schiena. Assieme alla moglie avevano dovuto abbandonare la figlia di nove mesi da una contadina. Mi chiedevano aiuto. Non sapevano dove andare: l'abbiamo nascosto in una delle baracche, con sé aveva una mitragliatrice. Abbiamo cercato di curarlo, ma è subentrata la febbre alta e la ferita s'infettò. Non potevano portarlo all'ospedale, la sua foto era tutti i giorni sui giornali, ma rischiava di morire. A Santiago c'era una dottoressa inglese, Scheila Kassedy, che si è dichiarata disponibile, ma lo dovevamo trasportare fino in centro città, dove c'era un convento di suore attrezzato per le cure mediche.
Una sera sono andata a chiedere l’automobile al vescovo, dicendogli che dovevo accompagnare un malato all'ospedale. Quella sera ho fatto salire sull'automobile lui e la moglie. La dottoressa lo ha curato e nel frattempo abbiamo trovato il modo, dopo una settimana, di farlo entrare nell'ambasciata del Costa Rica. Purtroppo la dottoressa è stata scoperta: i militari sono entrati di notte nel convento, hanno sparato uccidendo la cuoca e hanno catturato Scheila Kassedy e l'hanno portata con loro a Tres Alamos, dove si trovava il famoso lager. Là è rimasta per due, tre mesi: è stata brutalmente torturata.
La vicenda di Gutierrez fu scoperta ed esplose con clamore sulla stampa. Le autorità chiesero spiegazione al vescovo e lui, tranquillo, rispose che ‘la macchina non è un suo bene personale, ma è al servizio della gente. Se la mia segretaria ha bisogno della macchina, la può usare quando vuole’. Io, invece, fui interrogata dalle 9 del mattino alle 9 della sera. Alle spalle avevo quattro militari con la mitraglietta che di tanto in tanto facevano ‘suonare’ il grilletto. davanti altre quattro persone in abiti borghesi. Avevano scoperto il nostro gruppo, ormai sospettavano della Chiesa. Volevano conoscere il ruolo del mio vescovo e sapere i nomi degli altri. Non mi hanno torturata. Non avevo altra scelta: ammisi di aver salvato delle persone, ma aggiunsi che queste persone non avevano la possibilità di avere un processo giusto e che avevo visto morire la gente. Poi è intervenuto il cardinale, che mi ha salvato la vita.
Era stato avvertito da Karl, il mio futuro marito, che s'aggirava preoccupato vicino al carcere e andò ad avvisare tutti, compreso il mio vescovo, che a sua volta informò il cardinale. In quello stesso anno fui interrogata una seconda volta. Forse fui ingenua. Avevano convocato in caserma la cuoca del vescovo Ariztià per ottenere informazioni sul ruolo del prelato. La donna, ancora prima dell’interrogatorio, crollò dalla paura e allora l'accompagnai dai militari. Arrivai sulla porta e incontrai il generale che mi aveva interrogato la prima volta. Sobbalzò alla vista e si arrabbiò talmente tanto che mandò a casa la cuoca e mi fece rinchiudere in prigione. Era arrabbiato perché subito dopo il mio primo interrogatorio riuscimmo a far scappare un altro componente del gruppo di Nelson Gutierrez. E quindi era infuriato con noi e orami avevano le prove della nostra attività contro il regime.
Mi interrogarono per più di 12 ore. Ma fuori sapevano che ero in pericolo. Il vescovo avvisò il cardinale, il quale telefonò personalmente a Pinochet minacciando una crisi diplomatica se non mi avesse liberato. ‘Ha agito in nome della Chiesa’, disse, assumendosi così la piena responsabilità. Dovevo essere liberata: era un ultimatum e Pinochet comprese. Devo la mia vita al cardinale. Dopo questo interrogatorio, i giornalisti pubblicarono la mia foto sui giornali cileni. Ormai ero stata scoperta e venivo sorvegliata dalla Dina, il servizio segreto cileno. Non potevo più lavorare. Ci sono stati altri missionari italiani espulsi, che hanno subito il carcere e il lager di Tres Alomos. Tra loro ricordo, Gianni Malvina di Genova e due sardi. Nel 1976 mi sono sposata con Karl (Carlo Pizzinini, un ex prete, anche lui della Val Badia) e ci trasferimmo in Argentina e assistetti al secondo golpe militare. Eravamo andati in Argentina con l'intenzione di ritornare in Cile, ma nel frattempo il nostro vescovo, Fernando Ariztià, dopo i fatti accaduti, era stato trasferito nel nord del Cile. Nel 1978, rientrammo in Italia, in Alto Adige”. Rifarebbe tutto ciò? chiesi prima di andar via. “Sì, senza esitazione”, rispose.
Quella fu la prima e unica volta che Valeria Valentin parlò pubblicamente della sua vicenda in Cile, poi volle che non si parlasse più di lei. Negli ultimi anni si occupò dell’Africa e andò più volte in missione in Eritrea per la Caritas di Bolzano. E non smise neanche in quell’occasione di denunciare i soprusi e le privazioni della popolazione.
Paolo Tessadri (Articolo parzialmente pubblicato da ilfattoquotidiano.it)