Natale: una terra di mezzo come Betlemme

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Cari amici, Pace!

È l’undici di novembre, festa di San Martino.

Dopo aver abitato nove anni nel villaggio di Maina, oggi ho traslocato. Sono emozionato perché mi rendo conto che non si tratta solo di cambiare casa. Sono venuto ad abitare nella comunità di Effatà assieme a Wanjohi, Rachael, Kariuki, Margaret e Mark. Tutta la famiglia del Saint Martin ci ha accompagnato in un pellegrinaggio affettuoso, così come ha sostenuto negli ultimi 5 anni il sogno di poter vivere assieme a persone con disabilità mentali, abbandonate e sole.

Paul, Musa, Susan e Munyua, ognuno di loro ha alle spalle una storia di rifiuto. Musa, appena nato, è stato abbandonato sulla strada dalla sua mamma, forse spaventata per le sue malformazioni. Jane lo ha raccolto e fatto crescere assieme ai suoi figli. Dopo pochi anni è morta e i suoi bambini sono stati affidati ai nonni paterni, che non hanno voluto Musa con loro. Allora, è andato a vivere con la mamma di Jane, anziana e alcolizzata. Una convivenza tragica, che tuttavia è durata 10 anni.

Invece di finire nella disperazione di un istituto-lager come quelli che ci sono in questo paese, Musa è venuto a formare una comunità di speranza assieme a noi. In comunità ognuno porta il suo dono: quello di Musa è un sorriso che rivela una grazia particolare, disarmante per chi lo incontra per la prima volta.

Chissà, forse la nostra città di Nyahururu ha più bisogno di questa grazia che di tanti progetti di sviluppo; forse, chi ha una disabilità può aiutare chi pensa di non averne; forse chi non sa esprimersi può tendere la mano a chi non sa amare. Effatà è proprio questo: non una casa dove alcuni “generosi” si prendono cura dei “bisognosi”, ma una comunità di fratelli che hanno voglia di stare assieme. Una comunità dove è possibile sentirsi tutti poveri, tutti portatori di disabilità, tutti fiduciosi di ricevere il bene nascosto nel cuore dell’altro.

“Effatà! Apriti!” É la parola che Gesù ha rivolto al sordomuto. Non gli ha detto: guarisci! Apriti! Aprire il cuore chiuso è il vero miracolo. L’apertura è segno del regno che verrà. Un regno dove chi è lontano diventa di casa. E i veri “lontani” della nostra vita sono i poveri e Dio.

Spero che Effatà diventi un luogo dove celebrare la vita con i poveri, ma anche una casa di silenzio per fare spazio a Dio. Una esperienza aperta ad accogliere giovani disposti a spendere parte della loro vita per avvicinarsi a Dio e ai più deboli.

Effatà è anche segno della provvidenza in questo anno 2008. Lo è certamente per me che negli ultimi mesi ho dovuto fare i conti con le mie fragilità anche fisiche e lo è per questo paese così ferito dalle violenze post-elettorali. Un paese dove le divisioni sono sempre latenti nei due popoli che convivono come separati in casa:

“...facendo dei due popoli un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era di mezzo...”(Ef. 2)

Abbiamo bisogno di abbattere i muri di separazione per liberare la terra di mezzo e al posto dei muri costruire comunità di speranza, luoghi di riconciliazione per celebrare le nostre diversità e apprezzare le differenze che ci sono tra noi. É stato il buon Dio a volerci kikuyu e luo, bianchi e neri, disabili e abili... ci ha voluto diversi perché potessimo comprendere che abbiamo bisogno gli uni degli altri.

Riconosco quella che è sempre stata una mia vocazione: far incontrare mondi diversi.

Ci sono sempre due mondi malati d’amore, che hanno bisogno di una terra di mezzo per mettersi insieme. Abito questa terra di mezzo per chiamare i poveri ad uscire dal loro mondo di rassegnazione e i ricchi a liberare il cuore dalle preoccupazioni. Chiamare i deboli a credere nelle loro capacità e i forti a riconoscere le loro debolezze. Chiamare entrambi ad essere felici.

Ricordo appena prete, cappellano a Limena, il mio incontro con Mohammed, bisognoso di trovare casa. Rifiutai la soluzione di un alloggio in un centro di accoglienza e con fiducia mi misi a cercare casa presso qualche famiglia. Un centro di accoglienza avrebbe risolto il problema alla svelta, ma Mohammed non era un problema da allontanare, era un dono da avvicinare. Trovai la famiglia: fu una provvidenza per Mohammed e una grazia per chi lo accolse. Due mondi lontani si erano incontrati: l’estraneità era diventata familiarità.

Dopo diciotto anni mi ritrovo a fare le stesse cose: ieri ero alle prese con Joseph, un bambino di 4 anni. I suoi genitori sono morti, suo fratello si trova in ospedale in stato di coma per una malattia trascurata, e Joseph è passato di casa in casa da parenti che non lo hanno voluto. E’ finito in un istituto, ma neanche lì hanno voluto tenerlo.

Joseph si sentiva in più, sentiva di non meritare l’amore di nessuno. Quando si è accorto che mi interessavo a lui, ha smesso di piangere ed è venuto tra le mie braccia. Nessun bisogno di parlare. In quel silenzio ho ripensato a suo fratello che avevo battezzato qualche giorno prima e che forse non sopravvivrà. Mi è venuto un nodo alla gola, un senso di angoscia: no, questo piccolo ha già sofferto troppo e merita una vita come gli altri bambini.

Ne ho parlato con John e Lucy e subito mi hanno risposto: “Fra tre mesi nascerà il nostro quarto figlio e forse questo non è il momento migliore per noi... ma certamente è il momento migliore per Joseph. Faremo ai nostri bambini un dono di Natale inaspettato: porteremo a casa un fratellino!”.

E così ho visto Joseph andarsene in braccio al suo nuovo papà. Ho visto il Natale. Una terra di mezzo come Betlemme, dove un altro Padre ha voluto fare dono ai suoi figli di un fratellino.

Una terra di mezzo dove non esistono ricchi e poveri, disabili e sani, bianchi e neri, ma solo figli che un giorno finalmente capiranno d’essere fratelli. Una terra di mezzo come Betlemme dove avviene l’incontro tra due mondi: Dio non è più solo Dio, l’uomo non è più solo uomo.

Buon Natale!
fr. Gabriele
(Comunità Saint Martin - Kenya)

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