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Liberi di credere. E anche di esprimere opinioni
Religione
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Il credo religioso è una delle prime cause di discriminazione nella storia dell’umanità. Una consapevolezza diffusa a cui fa però riscontro un’estrema difficoltà di legiferazione internazionale. La ragione risiede nell’estrema sensibilità del tema della libertà di religione che non riguarda soltanto l’individuo, ma il suo rapporto con la società e con le altre culture. Non stupisce affatto che la messa a punto di una Convenzione specifica sul tema resti ancora una priorità nell’agenda ONU per la tutela dei diritti umani, seppur sia stata iscritta in essa sin dalla metà degli anni Cinquanta.
Disposizioni sulla “libertà di pensiero, di coscienza e di religione” e sulla proibizione di qualunque forma di discriminazione per ragioni inerenti la fede o il credo sono state diffusamente incluse in diversi documenti emanati dall’organizzazione multilaterale; tuttavia, solo nel novembre 1981 è stata adottata una Dichiarazione sull’eliminazione di tutte le forme di intolleranza e di discriminazione fondate sulla religione o il credo, di natura comunque non vincolante.
In parallelo con tale percorso di introduzione della libertà religiosa nella sfera dei diritti fondamentali, si è progressivamente assistito a una contestazione della sua formulazione convenzionale, che ne stigmatizza il punto di vista “occidentale” proprio della tradizione giudaico-cristiana. Obiezione che ha un fondamento storico, poiché fino alla metà degli anni Settanta gli organi dell’ONU erano composti in maggioranza da Stati occidentali. La Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo (1981) promossa da alcuni Paesi islamici che hanno rivendicato proprie “esigenze religiose e culturali”, a cui nel 1990 si è affiancata anche una Dichiarazione del Cairo sui diritti umani delle nazioni islamiche, entrambe formulate per “rileggere” la libertà di religione secondo i dettami dell’Islam, sono due esempi evidenti di tale polemica.
Alla luce di quanto sinora detto, sono parse del tutto comprensibili le preoccupazioni espresse pochi giorni fa dalle organizzazioni non governative internazionali Articolo 19 e Istituto del Cairo per gli studi sui diritti umani a margine della 22° sessione del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU. L’appello lanciato on line richiamava l’attenzione sul progetto di risoluzione sulla tolleranza religiosa posto all’ordine del giorno dall’Organizzazione della Conferenza Islamica che introduceva un nuovo linguaggio in materia rischiando di minare il consenso raggiunto con la risoluzione 16/18 del 2011, a tutela sia del diritto alla libertà di religione o di credo sia del diritto alla libertà di espressione.
La disposizione era giunta alla fine di un lungo e contestato dibattito sulla “diffamazione della religione”, proposta e approvata in più risoluzioni su richiesta di Paesi islamici che si appellavano alla crescente intolleranza verso i fedeli a seguito degli attacchi dell’11 settembre (2001) e della dottrina Bush sullo “scontro di civiltà”. Ad esempio nella risoluzione 7/19 del 2008 si legge “Nel contesto della lotta al terrorismo, la diffamazione della religione è diventata un fattore aggravante che contribuisce alla negazione dei diritti e delle libertà fondamentali e all’esclusione sociale ed economica di un gruppo di persone”. Tuttavia tali indirizzi vennero ben presto rettificati, in quanto ci si rese conto che occorreva dare priorità alla protezione degli individui dalla discriminazione e dalla violenza piuttosto che alla tutela delle religioni contro la diffamazione. Inoltre, una simile definizione di discriminazione rischiava di portare a un restringimento di fatto della libertà di espressione. Per queste ragioni la risoluzione 16/18 del 2011 invita a mettere in campo misure educative e di dialogo per prevenire l’intolleranza, piuttosto che punirla. Un impegno confermato dal voto del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU del 22 marzo scorso.
Il richiamo a un equilibrio nella tutela dei diritti umani è venuto allora anche dal presidente del Consiglio dei Diritti Umani, Remigiusz Achilles Henczel. All’apertura dell’incontro promosso dalla delegazione dell’UE su “Libertà di religione e credenza per tutti?”, Henczel ha ricordato l’impegno dell’ONU nell’assicurare la tutela di tale fondamentale diritto umano, ma anche il necessario equilibrio con la piena osservanza di altri diritti, innanzitutto della libertà di opinione e di espressione, e della libertà di associazione e di riunione.
A quanto emerge dal Rapporto presentato in questi giorni dal relatore speciale, Heiner Bielefeldt, al Consiglio dei diritti umani, la violazione del diritto alla libertà di coscienza e credo è ancora molto marcata e diffusa, perpetrata attraverso violenze fisiche, detenzioni arbitrarie, sparizioni, accuse di “apostasia” e “blasfemia” contro dissidenti o convertiti ad altre religioni punite con la pena capitale, manifestazioni pubbliche di intolleranza, attacchi a luoghi di culto, monumenti o luoghi storici.
La libertà di religione si gioca però anche su quelle che possono apparire inoffensive “sfumature”, quali i giuramenti nelle aule di tribunale o l’uso di simboli religiosi in ambiti statali. Eppure si deve partire anche da quelle, che ugualmente toccano la coscienza e i diritti civili, per una piena e totale tutela della libertà della persona in questa sfera.
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