L’arte di so-stare. Lotta e padronanza

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Pubblichiamo la terza parte dell’articolo del prof. Milan sul tema dell’ospitalità. Per leggere la seconda cliccare qui.

È tuttavia evidente che, per pervenire ad un dialogo efficace, “comprendere non basta”; né basta per “educare”. Una relazione efficace, significativa, concreta, educativa, non si accontenta del pur dinamico andirivieni accettazione-empatia, invitare e andare a trovare. È necessario fermarci nella relazione, costruire nell’incontro la “mensa comune”, la creatività che l’ospitalità genera. Il sostare nella relazione non è una dimensione onirica, sterile contemplazione reciproca, ma è reciproca coltivazione-custodia dell’io e del tu, oltre che condivisa coltivazione-custodia del mondo comune. Questa fase dell’ospitalità necessita così di un ulteriore passo, che non sempre viene ricordato: è quello che Martin Buber chiama “lotta” con l’altro, non per distruggere (come si potrebbe erroneamente intendere) ma per aiutare il Tu a diventare ciò che può e deve diventare, coinvolgendo pienamente le sue potenzialità, la sua volontà, il suo impegno, la sua responsabilità. Proprio, come poco fa si diceva, nel rispetto più grande dell’alterità del tu.

La lotta autentica, che significa consapevolezza e dinamica apertura alle difficoltà dei rapporti, deve evidenziare la sua dimensione positiva implicita, cioè il rispetto. Essa è possibile e giustificata soltanto se rimanda al riconoscimento originario, alla presenza del tu e all’’intimo rispetto.

Lotta è perciò il profondo “dialogo dei prossimi”, che arrivano reciprocamente ospiti, da strade diverse e a volte contrapposte, capaci di incontrarsi proprio a partire dalle differenze, per farle diventare dialogo fecondo.

“Lotta” è il caldo, appassionato, concreto e sempre nuovo dialogo, fatto di “botta e risposta”, nella reciprocità più vera, in rapporto a valori autentici e ad aspettative adeguate: lotta, così la definisce Buber, “con” il Tu (che deve essere soggetto-protagonista), “per” il Tu (per la sua autonomia-pienezza-educazione), a volte “contro” il Tu (per contrastare i suoi comportamenti non approvabili: chiusure, inibizioni, nascondimenti, conformismi, passività, aggressività, capricci…); “lotta”, non per farne uscire “vincitori” e “perdenti” ma per ritrovarci tutti “vincenti”.

È quanto accade anche nella biblica “lotta” di Giacobbe, nel pieno di una notte buia, con un angelo misterioso, che tuttavia è messaggero di Dio, che in lui si nasconde. Giacobbe è un senza nome, un senza identità, un senza-popolo. Dio lo chiama ad un confronto inquietante, che anche in questo caso dura tutta la notte, nell’oscurità più tetra. E Dio, più grande e più forte, si fa vincere: all’alba dà la sua benedizione a Giacobbe e – insieme – gli dà il nome, Israele, che è il nome del popolo: Giacobbe, attraverso quella lotta – realmente educativa – trova l’identità personale e collettiva, e viene incluso nella partecipazione più autentica, da attore reale di una comunità reale. Questa lotta avvincente – vera metafora della lotta educativa – lascia una ferita profonda in Giacobbe, che zoppicherà tutta la vita: è il ricordo indelebile di un incontro autentico che lascia una grande eredità, che lascia il segno, che insegna. Non si può insegnare senza incontrare.

Ciascun ospite lascia perciò nell’altro una storia scritta, essenziale, che si può sviluppare: ciascuno può “narrare se stesso”, esprimere se stesso, partecipare, perché un altro sa e vuole “scrivere nella sua anima”.

Platone utilizza proprio, a proposito del compito dell’educatore, l’idea dello “scrivere nell’anima”:

“In un discorso scritto c’è molto di superficiale e di aleatorio. Soltanto nella parola dell’educatore, cioè in ciò che si scrive veramente nell’anima, intorno al giusto, al bello e al bene, c’è chiarezza, pienezza e serietà; l’educatore capisce che queste parole devono essere proprio sue, come fossero figli suoi, e sa che il discorso – se mai lo abbia trovato – egli lo porta dentro di sé”. Così scrive il filosofo greco Platone.

Da questa lotta educativa che incide, che sa “scrivere nell’anima”, attraverso la parola viva che è testimonianza, proviene la vera “autorità” degli educatori autentici: capaci in primo luogo di “essere autori” del discorso dentro se stessi (testimoni, portatori di un testo credibile) e, conseguentemente, di proporlo ad altri con coerente determinazione per aiutarli a diventare “autori originali” di se stessi e del mondo di cui devono essere protagonisti.

Giuseppe Milan

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