India: Dio è uno, nella diversità

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“Dio è uno” è la frase che mi è stata ripetuta più volte nella mia esperienza di 4 mesi in India. Di solito arrivava subito dopo la domanda: “Di che religione sei?”. Me l’hanno chiesto gli autisti di rickshaw, le compagne di danza, le coinquiline indiane.

A Mumbai, soprattutto, dove ho vissuto, la convivenza fra religioni è la cosa più naturale del mondo.

A pochi passi di distanza senti cantare il muezzin mentre i mantra induisti riempiono l’aria insieme ai profumi di incenso, poi magari senti recitare il rosario. E nessuna religione provoca o infastidisce i fedeli di un’altra, anzi. La diversità è una risorsa, la convivialità delle differenze una opportunità. Il tutto con una naturalezza rispettosa. E anche curiosa.

Nella famiglia cattolica con cui abitavo abbiamo fatto l’albero di Natale il 23 dicembre. Ho raccontato che noi in Italia lo facciamo prima, di solito verso l’8. Mi hanno risposto “noi lo facciamo all’ultimo per non infastidire i vicini”. Questa attenzione è rispetto, nel senso etimologico di re-spicere, guardare due volte. È un attenzione attiva, non banale o indifferente come è invece la “tolleranza” che presuppone una sopportazione della differenza o al massimo un’indifferenza.

Ci sono anche i fondamentalismi, certo, ma nella mia esperienza, si festeggiano le feste delle altre religioni e si invitano gli altri devoti alle proprie senza nessun problema. Un cattolico può entrare in un tempio e un hindu in una moschea, proprio perché “Dio è uno”.

Secondo i dati di The First Report on Religion, Census of India, 2001, l’80% degli indiani sono hindu, ecco spiegato perché il sistema delle caste domina la società. Una delle religioni più antiche che risale almeno al secondo millennio prima di Cristo, quando gli ariani hanno cominciato a popolare l’India. Ci sono delle regole di comportamento precise ma anche una straordinaria flessibilità, un pantheon ricchissimo di divinità dai tratti umani, capricciose, anche divertenti. A guidare la vita di ciascuno è il dharma, una sorta di legge morale che invita a fare la cosa giusta. La si raggiunge attraverso il karma, la serie di azioni che si compiono per arrivare alla moksha, la liberazione dal ciclo di rinascite per ricongiungersi a Dio.

Il 13% degli indiani sono musulmani concentrati prevalentemente in alcuni stati come il Kashmir.

Il 2,3 % degli indiani sono cristiani, prevalentemente cattolici, ma ci sono anche ortodossi e protestanti. San Tommaso pare essere arrivato a predicare fino qui. Poi i portoghesi, poi i danesi.

La percentuale di Sikh è leggermente inferiore: 1,9%, una religione più recente centrata sulla meditazione più che sui rituali.

Il resto della popolazione si divide fra buddisti, jainisti e altri. L’ateismo non è contemplato. Anche perché la religione in India, almeno per la mia esperienza, è molto presente, vicina, quotidiana, tattile e colorata, sfiora ogni aspetto della vita e si muove fra la dimensione spirituale e quella concreta e materiale. Sotto casa mia c’era una statua della Madonna a cui ogni settimana veniva cambiato l’abito e a fianco, un crocefisso con i led luminosi che cambiavano colore intorno alla croce. Perché “Dio è uno” anche se ha la pelle blu come Krishna, se è un elefante come Ganesh che cavalca un topo o se si amano così tanto gli animali da passare una piccola scopa davanti ai propri piedi per essere sicuri di non pestare insetti, come fanno i jainisti. Dio è uno e se anche la festa è chiassosa, colorata, debordante e può disturbare i vicini, domani ce ne sarà un altra, di un altra fede, e potremmo scambiarci dolci e doni per festeggiare insieme.

Francesca Rosso

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