In Iran: frecce che indicano speranza

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Prima di partire per l’Iran i commenti generali, lo ammetto, sono stati: “ma sei sicura?”, “non hai paura ad andarci sola?”, “ma cosa vai a fare, e dov’è esattamente?”.

È inutile negare che, soprattutto nel presente storico occidentale, la decisione di dialogare e andare in paesi in cui – diciamocelo – l’America non è un’amica gradita, è considerata una scelta azzardata. Il motivo principale è perché in quei luoghi ci si trova catapultati in un rovesciamento di prospettive, in cui l’occidentale non deve dare per scontato il fatto di insegnare un modello che riscuote per forza consenso, e nemmeno di avere sempre un seguito su argomenti profondi e che riguardano tutti.

Nonostante ciò in Iran, l’ospite d’Occidente è accolto calorosamente, viene apprezzano, e la stima nei suoi confronti aumenta quando questo, curioso e consapevole delle proprie tradizioni, pone domande senza dubitare delle risposte prima di averle ascoltate o quando avanza delle considerazioni senza dover per forza indicare in cosa la cultura che lo sta ospitando dovrebbe cambiare.

Da una parte mi chiedo quando verrà meno la paura di conoscere le persone che formano la parte islamica del mondo. Dall’altra invece, quando cesserà il timore di andare nei loro paesi, non per visitarli ma per conoscersi.

Trovo riduttivo giudicare una città solo perché, ad esempio, alle donne di qualsiasi razza o credo è richiesto di indossare un copricapo senza sapere che, fino a qualche generazione fa, in Europa veniva imposto lo stesso obbligo a chiunque fosse intenzionata ad uscire di casa.

Perché poi, non guardare il lato positivo di un paese dove sul soffitto di ogni camera di albergo c’è una freccia che indica dove rivolgere la propria preghiera? In quelle stanze – devo dire la verità – molti occidentali non si accorgono nemmeno di quella sottile indicazione sopra le loro teste, nemmeno quando si sdraiano a pensare alla giornata trascorsa in viaggio, o al lavoro. Del resto, accorgersi di una figurina a forma di freccia che sottintende una fede viva e presente, significa soffermarsi a pensare alla perdita di spiritualità che accumuna la nostra moderna società. E non vi è dubbio che questa presa di coscienza spaventa, soprattutto a un popolo abituato a confidare sempre di più nella laica previdenza.

Dopo essermi confrontata professionalmente con il popolo iraniano, posso avanzare che nella mia vita non ho mai parlato di mistica e spiritualità in modo così aperto, schietto e immediato come mi è successo a Tehran. L’occasione che mi ha portata nella capitale è stato il Fajr, il festival internazionale del cinema, dove per una settimana ho interagito con giornalisti governativi e non, docenti universitari, scrittori, registi, manager e produttori cinematografici. Tutti islamici e ognuno consapevole delle ingiustizie indette nel nome di una religione diventata più strumento che guida e, me compresa, concordi ad affermare che quello che sta accadendo in Medio Oriente, altro non è se non l’ennesima pagina della storia di un’umanità che in nome di Dio riesce ad ammazzare. E lo fa perché, come succede fin dai capitoli prima di Cristo, non riesce a trovare pace nell’immagine divina in cui dice di credere quando uccide.

Sono sempre più convinta che, in qualsiasi parte del mondo, “l’ateo” sia il credente perfetto e “il fanatico” lo scettico per eccellenza: due manifestazioni diverse di un’anima incapace di trovare il divino che cerca invano.

Chi uccide in nome di Dio – qualsiasi esso sia – è mosso dalla frustrazione per non riuscire a trovarlo. Così dispera fino ad aver bisogno di individuare un nemico dove affondare il proprio rancore che, da quando esiste l’uomo, è un sentimento che lo porta ad assumere l’atteggiamento di “vittima” per far valere la propria ragione, o il proprio dolore.

Un sentimento spontaneo che è più facile cercare di espugnare con la violenza verso chi si pensa l’abbia inflitta, inconsapevoli invece che l’unico modo per eliminarlo davvero – e rinascere – è la via del perdono. La sola scelta, assieme alla creazione, all’atto di sperare e alla resurrezione, degna di essere fatta in nome di un Dio.

Con questo, non voglio giustificare le ingiustizie e nemmeno dimenticarle. Al contrario, sono convinta che accettare la realtà aiuta la nostra intelligenza a interrogarsi sul nostro destino che, permettetemi il gioco di parole, sembra destinato a vivere in perenne conflitto per evolvere e trovare, sempre, un modo per uscirne cambiati, migliorati. Come diceva Hafez, noto poeta mistico iraniano del Medioevo, “il segreto di questo mondo è un enigma che non potrà mai scioglier sapienza”. Chissà, forse è davvero così, siamo tutti figli di un intraducibile arcano come questo scrittore, portato a noi da Goethe, ha predetto in una delle sue meravigliose canzoni senza tempo.

La storia dice che siamo tutti nati da avi cresciuti, più o meno, in quel pezzo di terra “mediana” al centro del mondo e se chiedi alle persone se gli uomini hanno un’origine comune, la maggior parte risponderebbe di si. Ebbene, in Iran ci sono tracce dell’uomo che risalgono a 7000 anni prima di Cristo e, dalla conquista di Alessandro Magno in poi, la storia è stata scritta in modo preciso: la Persia ha lasciato traccia in qualsiasi altra cultura del mondo che oggi, la maggior parte di noi, ha paura ad accettare.

Se andate a Tehran mi raccomando, portatevi una maglia: una settimana fa c’era la neve sulle cime delle montagne di fronte alla camera d’albergo che, prima di essere stato preso dai rivoluzionari, si chiamava Hilton. Questo, assieme alle case dei 18 milioni di tehraniani, si trova a 1.200 metri sopra il livello dei mari dove, nonostante la movimentata balera spirituale, mi sento di affermare che le cose non stiano andando perfettamente – mi chiedo anche dove questo accada –.

A provarlo il fatto che la gente non parla liberamente della situazione politica o governativa, se non all’interno di quattro mura private. O il divieto, ad esempio, imposto alle persone di sesso opposto di toccarsi in pubblico, cosa per noi difficile da rispettare e da comprendere, così come da altri comportamenti che fanno intuire che c’è ancora molto d’irrisolto.

È altresì vero che le donne sono sempre coperte, un rispetto per la tradizione che le nuove generazioni stanno cambiando, ma, nonostante questa “protezione” fino alla punta dei piedi, sono donne che si fanno sentire. In Iran il loro ruolo è influente: sono persone attive, sveglie, curiose, intraprendenti, non in crisi davanti alla scelta se famiglia o carriera e capaci di gestire entrambe grazie alla posizione differente, e distinta, che hanno rispetto all’uomo, sia in casa che nella società. La stessa cosa potrei dirla in modo diverso per gli uomini: maschi che fanno la spesa per tutta la famiglia tenendosi per mano con altri amici dentro caotici bazar, che lavorano impegnandosi duramente ma consapevoli di farcela per essere sorretti dall’amore di una donna. Uomini che passeggiano da soli per mano con i figli, anime il cui rispetto per la dolce controparte lo imparano leggendo il Corano dove quest’ultima viene descritta, e cito le loro parole, come “la reincarnazione più alta della divinità”.

Insomma, la conoscenza reciproca è fondamentale e, in Iran come in America, ogni cosa che ha un peso negativo ne trova sempre un’altra che la compensa con uno positivo. Come del resto funziona per ogni individuo sotto un cielo che, per ricordare le parole interpretate da una cantante italiana, “a volte fa il mondo in bianco e nero ma dopo un momento i colori li fa brillare più del vero”.

Francesca Bottari

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