Alture del Golan: l’occupazione intelligente

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Niente a che vedere con con la tensione che si respira a Gerusalemme Est o in Cisgiordania: sulle alture del Golan la presenza militare, concentrata lungo le zone di confine con Siria e Libano, a primo impatto non sembra condizionare piú di tanto la vita quotidiana della popolazione.

Per raggiungere i villaggi dell’altopiano siriano, occupato durante la guerra dei 6 giorni dallo Stato di Israele, non si passa per checkpoint e i 33 insediamenti costruiti a partire dal 1967 sono aperti e accessibili a chiunque, locali e non. “I rapporti e le relazioni con i coloni non si basano sulla discriminazione o la violenza: sappiamo distinguere tra ebrei e sionisti, e, a meno che si verificono minacce per la nostra esistenza, evitiamo di entrarci in conflitto”, spiega Shefaa Abu Jabal, portavoce dell’organizzazione Golan for development, l’unica ong presente nel territorio, parlando di quella che definisce “occupazione intelligente”.

Poca violenza, limitata presenza militare, coesistenza pacifica: tre concetti chiave per fare passare praticamente inosservata agli occhi della comunitá internazionale quarant’anni di occupazione straniera. Del Golan, infatti, si parla poco, e ancor meno dei circa 20.000 drusi che vi sono rimasti a vivere, piú o meno mantenendo le proprie tradizioni e abitudini. “Prima dell’occupazione 130.000 persone vivevano qui: cristiani, drusi, musulmani, non credo che ci fosse un solo ebreo. Avevamo 220 cittadine e due localitá maggori, tutti distrutti durante e successivamente al conflitto del 1967: oggi ci sono rimasti solo cinque villaggi”, racconta la giovane drusa.

Sheefa, 25enne di Majdal Shams, il principale centro tra i cinque villaggi drusi ad oggi esistenti sulle alture del Golan, appartiene a quella generazione nata e cresciuta in quello che, il 14 dicembre 1981, é stato unilateralmente annesso allo Stato di Israele tramite la “Golan Heights Law” approvata dalla Knesset israeliana.

Una legge che, pur non utilizzando il termine “annessione”, ha esteso legislazione, giurisdizione e amministrazione a tutto il territorio occupato, e il cui valore é stato dichiarato nullo e senza effetti dal punto di vista del diritto internazionale dalla risoluzione 497 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ció nonostante, il Golan risulta de facto annesso, i programmi scolastici sono quelli presenti nel resto di Israele e la popolazione, che per la maggior parte ha rifiutato la cittadinanza israeliana, non ha ad oggi un passaporto.

“La popolazione del Golan ha lo status di <residenti permanenti> e un documento per viaggiare all’estero che al posto della nazionalitá indica <non definito> nella versione inglese e <non chiaro> in quella ebraica”, dichiara Sheefa, spiegando la differenza con quelli che lei chiama “drusi palestinesi” e che, invece, non solo hanno accettato di avere la cittadinanza israeliana, ma sarebbero estremamente leali nei confronti dello Stato, servendo anche nelle IDF.

Loro, i drusi del Golan, invece, a prestare servizio nell’esercito occupante non ci pensano proprio. E mantengono una forma di resistenza morale con il sogno, un giorno, di tornare ad essere cittadini siriani. Perlomeno quelli di loro, che ricordano il pre-occupazione o ne sentono parlare all’interno della propria famiglia.

“La situazione é pacifica”, racconta Sheefa, “ma ció non significa che i coloni non abbiano rubato la terra: controllano il 70 per cento del territorio”. E i problemi, nonostante la calma apparente, non mancano.Il piú sentito, in una regione la cui popolazione vive di agricoltura e soprattutto della coltivazione di mele e ciligie. “Israele controlla il 75 per cento delle risorse acquifere del Golan: paghiamo l’acqua tre volte quanto la pagano i coloni, noi quasi un dollaro, mentre loro meno di uno shekel. In aggiunta a ció, mentre loro possono avere tutta l’acqua di cui hanno bisogno, noi riceviamo solo quello che rimane. A volta l’acqua non basta per annaffiare le mele, la cui vendita rappresenta la nostra principale fonte di reddito”.

Altra problematica é, poi, l’impossibilitá, salvo in rare occasioni e su rilascio di permessi speciali, di oltrepassare il confine e andare in Siria, dove molti di loro hanno famiglia. Negli anni passati le autorizzazioni venivano rilasciate solo a studenti che sceglievano di frequentare l’universitá a Damasco, a religiosi uomini e a donne religiose, di etá superiore ai 70 anni. “Nel 2010 la situazione é stata piú favorevole: tutti hanno potuto fare domanda, anche quelli che hanno semplicemente famiglia dall’altra parte. Ma chissá cosa decideranno nel 2011.”

Michela Perathoner inviata di Unimondo

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