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Wallyball. Un gioco sul confine
Popoli minacciati
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Di quando frequentavo il liceo, alcune cose più di altre mi sono rimaste in mente. A dire il vero posso rintracciarne poche tra le pagine dei libri di testo, dismessi come vecchie camicie fuori moda non appena l’anno si fosse chiuso; più verosimilmente le ritrovo invece appuntate a bordo pagina sui fogli della memoria, sparsi e stropicciati, eppure saturi di spunti ben oltre i concetti chiave utili per l’interrogazione di turno. Una di queste è una pillola sulla parola confine, una di quelle che - lo scopri solo dopo - influiscono pesantemente sulle scelte della tua vita e sul modo stesso di viverla. In particolare ricordo una chiacchierata con il professore di filosofia che ci aveva spinti, a partire e al di là delle etimologie, ad avvicinare le radici delle parole “scelta”, “separazione” e “confine”: un filo le allacciava, un filo di demarcazione e definizione, dal compito contenitivo ed escludente, categorie a quanto pare necessarie per una forma mentis tutta occidentale che ha bisogno di spazi “del dentro e del fuori”.
Questo pensiero è diventato uno strato del mio modo di vedere le cose, anche se progressivamente ha lasciato campo libero ad altri appigli dove stendere ricordi e riflessioni. Per esempio un paio di strofe come queste: “Che sia benedetta la guardia di confine, al freddo e sola / pietà per l’ufficiale di confine la cui vita sta a guardia di una linea, / pietà per il rifugiato, la cui casa è rimasta indietro / Colui che ha creato il mondo come uno solo, non avrebbe potuto concepire un filo spinato per la costruzione di un muro”. Pochi versi, tratti da una canzone di Springsteen, che ai tempi dell’Università facevano ormai il paio con un ritornello dei Mercanti di Liquore, a sinterizzare il minimo comun denominatore di chi viaggia per conoscere e non per spostarsi: “impara la tua direzione da gente che non ti somiglia”. Il confine era diventato insensato, assurdo per chiunque, sia che lo difendesse sia che lo oltrepassasse.
Due capoversi su questa pagina, due “epoche” di crescita e formazione che adesso, dopo aver aggiunto qualche paragrafo in più alle esperienze della vita, mi accorgo di quanto risultino estremamente complementari l’uno all’altro per comprendere la complessità del confine. E cioè di quel concetto che, se da un lato separa e divide, dall’altro invece è labile e permeabile. Liquido, come potrebbe dire qualcuno. Ma che rimane in ogni caso imprescindibile, perché offre un luogo - reale o virtuale non importa - in cui ritrovarsi per conoscersi e riconoscersi. Per incontrarsi, il che, si badi, non ha nessun legame scontato con il mescolarsi.
In un momento storico come il nostro, che ha inizio ben oltre la nostra generazione, che si fa forse più nitido con la nascita degli Stati nazionali ma che trova spazio anche con le indipendenze post coloniali e comunque ancora oggi ha un nome al presente per scrivere la storia - qualsiasi discorso politico che contribuisca a tessere le delicate matasse del potere e del movimento (guerre, migrazioni) non può esimersi dal parlare di confini. E, se per partecipazione politica si deve intendere la capacità di prendere parte al “foro della polis”, della collettività e non del partito, con “confini” occorre intendere quel bisogno ineludibile di darsi un senso profondo come esseri umani che vivono la quotidiana esperienza delle soglie. Cioè dei limiti, siano essi fisici e biologici (per esempio la nascita, la morte), siano essi mentali.
Il confine è proprio una di queste soglie, sulla cui linea di senso costruiamo le nostre individualità e le nostre comunità. E’ un luogo concreto, prima interiore che esteriore, che traccia la demarcazione tra inclusione ed esclusione, che stabilisce le regole per chi lo può varcare e chi no, che ci permette di porci di fronte agli altri, consapevoli della nostra identità.
Facciamo però un esempio concreto, che vale più dei voli pindarici delle parole: frontiera tra Messico e Stati Uniti, punteggiata di migranti esausti e di poliziotti alienati. Frontiera dove, da un po’ di tempo, si è aggiunto un terzo protagonista: un campo di pallavolo, che per tutti è “wallyball”, a raccogliere nel nome di un passatempo l’inglesismo di un sogno a portata di vista ma non ancora di piede. Un gioco dunque, sì, che porta la palla di qua e di là dal confine come se tutto fosse normale, come se la rete non fosse un muro, come se il muro non fosse, e basta. Un gioco che, a quanto si racconta, è stato giocato per la prima volta nel 1979 all’interno di una fiesta messicana, e che continua ad essere giocato (ogni anno nel mese di aprile) nonostante le evidenti difficoltà pratiche (l’altezza di questa “rete” rende impossibili le “schiacciate” e i pallonetti oltre i 15 metri spesso causano ferite sulle mani e sui polsi dei giocatori).
E’ però l’entusiasmo dei partecipanti il messaggio che porta il peso di un autentico gesto politico: trasforma più di 3500 chilometri di confine in un campo da gioco a cielo aperto che, secondo le parole del sindaco di Naco Villegas, “rappresenta la celebrazione dell’unione di due Paesi… e l’unica partita al mondo dove entrambe le squadre giocano in casa”. Si direbbe un gioco sovversivo, ma questo aspetto, in qualche modo, rende le partite del tutto legali, tanto da coinvolgere le rappresentanze istituzionali delle cittadine di Naco (quella messicana nella provincia di Sonora e quella americana in Arizona), di Tijuana e di San Diego.
In giorni in cui, così come sulla frontiera americana, nuovi muri minacciano di dividere l’Europa, il confine è chiaro quanto i suoi scopi: da un lato proteggere, dall’altro separare, solcare fortune e sfortune, dire nettamente “chi può stare da quale parte”. Il gesto che lo supera, lo scavalca, ne varia le finalità di utilizzo e lo irride è una presa di posizione fisica e politica. Che destabilizza, perché non sancisce solo “chi sta dove” ma, pur non ignorandone il significato, stravolge la ragione stessa della sua ingombrante presenza.
Saper stare sul limite, viverlo come una naturale condizione di equilibrismo dell’esistere - che, se a volte chiede di incidere un segno di divisione, a volte implora invece di cancellarlo e ridisegnarlo - si configura come la sfida più grande, più difficile e senza dubbio più promettente (quanto a prospettive e soluzioni di lungo termine) che attende non solo la politica, non solo le grandi decisioni che a livello nazionale e internazionale ci aspettiamo da governi e istituzioni, ma che prima di tutto aspetta noi come singoli individui, perché, su quella linea, possiamo crescere come funamboli della convivenza.
Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.