Sud Sudan: un referendum, molte incognite

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Il referendum sulla secessione del sud Sudan è ancora in corso: non si conoscono gli esiti della consultazione, ma qualunque sia il risultato questa diatriba segnerà in modo pesante gli equilibri futuri della regione, già teatro di guerre e genocidi. Le differenze tra le due parti del paese più esteso dell’Africa sono di carattere etnico, religioso e economico: il Nord è popolato da etnie arabe e nilotiche, di religione musulmana, nel Sud la stragrande maggioranza appartiene a gruppi negroidi, cristiani oppure legati alla fede tradizionale (definita in occidente come “animista”).

Tuttavia contrapposto è anche lo scenario economico: se il Nord possiede una maggiore estensione di territorio agricolo, nel Sud sono concentrate le risorse di minerali e idrocarburi, soprattutto petrolio, che suscita gli appetiti delle grandi potenze mondiali. Non bisogna poi dimenticare la questione del Nilo e dell’utilizzo delle sue acque: è ovvio che i paesi a valle godano della maggiore portata del fiume garantita però dalle sorgenti poste negli Stati a monte, generando attriti difficilmente superabili.

Tutto questo influisce sulla tormentata e sanguinosa storia della regione negli ultimi decenni soprattutto dopo la presa del potere del dittatore Al Bashir, musulmano del Nord, che dal 1989 ha imposto un regime tra i più violenti dell’Africa protagonista di tutti i conflitti da quello del Darfur a quello con il Ciad fino alla perenne tensione con il Sud, sfociata in numerosi episodi di guerra aperta, con massacri di popolazione civile. La situazione è stata denunciata più volte dalle organizzazioni umanitarie che hanno puntato il dito soprattutto contro l’esercito del Nord, colpevole di delitti che hanno portato all’emanazione di un mandato di arresto contro Al Bashir da parte del Tribunale penale internazionale dell’Aja.

Così il mensile Nigrizia, che segue attentamente la situazione grazie ai missionari comboniani, descrive il Sud Sudan: “L’85% della popolazione, 8,3 milioni di abitanti vive nella miseria; oltre 4 milioni dispongono di soli 73 centesimi di euro al giorno per vivere; 4,7 milioni di persone soffrono la fame; 1,5 milioni dipendono dagli aiuti esterni; servirebbero 850 mila tonnellate di cibo per il fabbisogno alimentare ma la regione ne produce solo 660 mila.

L’economia dipende dalle entrate petrolifere. Con la separazione il governo di Juba dovrà negoziare con Khartoum il trasporto del greggio attraverso l’oleodotto, costruito dai cinesi, che collega i pozzi nello Stato dell’Unità e le strutture portuali di Port Sudan, sul Mar Rosso, nel Nord. La Toyota a proposto un nuovo oleodotto che colleghi il Sud Sudan con Lamu, sulla costa del Kenya, mentre i cinesi – i primi acquirenti di greggio sudanese – preferirebbero una via di comunicazione mista – strada più ferrovia – tra i pozzi petroliferi e il porto kenyano”.

Si capisce così come lo scenario intorno alla possibile secessione del Sud Sudan coinvolga tutta la regione e interessi internazionali: una situazione monitorata con molta attenzione dalle Nazioni Unite per il timore di un possibile conflitto su larga scala. Gli schieramenti sono già delineati: da una parte il Sudan di Bashir, sostenuto dalla Cina e appoggiato dai paesi arabi, dall’altra il governo del Sud che gode dell’alleanza con gli Stati Uniti e con i paesi limitrofi dal Ciad all’Uganda.

L’appoggio del presidente ugandese Museveni alla causa della secessione è aperto e determinato: in alcune recenti dichiarazioni si è espresso in favore della nascita del nuovo Stato che vedrebbe come membro di una futuribile “unione” degli Stati dell’est Africa, sottolineando l’importanza del rispetto della libertà e il rifiuto di ogni oppressione. Si dice che il governo di Juba, la capitale dei “sudisti” abbia ammassato armi proprio in Uganda, da utilizzare alla bisogna.

Monsignor Giuseppe Filippi, vescovo della diocesi di Kotido in Uganda, proprio al confine con il sud Sudan, da noi contattato descrive così la situazione: “Un movimento di armi è difficile da confermare. L’esercito ugandese è ben armato e, in caso di necessità, non ci metterebbe tanto a intervenire a difesa dei propri confini. Inoltre è noto che il Nord Sudan ha sempre sostenuto Joseph Kony contro l'Uganda e contro lo SPLA. C'è qualche voce che parla del ritorno di Kony nel Nord Uganda il che può essere legato sia alle elezioni in Uganda pianificate per febbraio sia al referendum in Sudan.

Nel Nord della diocesi di Kotido è stato elaborato un piano di emergenza nel caso il referendum dovesse essere seguito da violenze. Si teme un possibile influsso di gente che cerca sicurezza. Questo è già avvenuto nel passato, ed è abbastanza naturale visto l'affinità culturale e linguistica con le tribù confinanti in Sudan e nel Nord Karamoja. Il piano di emergenza è senz'altro buono anche se un po' esagerato. Se ci sarà un afflusso di gente ma non ci saranno grandi strutture ad accoglierla, certamente le agenzie internazionali inclusa la chiesa faranno del loro meglio per offrire l'assistenza necessaria. La mia zona, in realtà, è così sprovveduta di tutto che non ha nessuna rilevanza politica e le strade non sono adeguate a mezzi militari, almeno quelli pesanti. Qui almeno su questo fronte siamo tranquilli”.

La situazione resta tesa con l’alternarsi di segnali inquietanti e di spiragli positivi per una regione dell’Africa che non avrebbe bisogno d’altro che di pace.

Piergiorgio Cattani

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