Quell’Africa che viaggia verso l’Europa

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Giacomo Zandonini, classe 1981 e origini trentine, di professione giornalista (già collaboratore di Unimondo.org) e video reporter free lance, da anni si occupa di emigrazione africana. Ecco come ha risposto alle nostre domande.

Traversata dei migranti africani per mare e per terra verso l’Europa. Le hai seguite entrambe: quali sogni, timori e speranze ti raccontavano i tuoi compagni di viaggio?

Il viaggio ha valenze molto personali, come per ognuno di noi: viaggiamo per evadere, per scoprire posti nuovi, per conoscere il mondo, per crescere nel lavoro, per confrontarci con noi stessi. Questa è la storia di chi arriva in Europa per strade pericolose, rocambolesche, spesso drammatiche, perché l'Europa si sta chiudendo sempre di più. Per i giovani dell'Africa occidentale che ho incontrato, potrei dire generalizzando che c'è un grande desiderio di viaggiare, di scoprire. La "back way", come la chiamano i gambiani, è un rito di passaggio, oltre che spesso una scelta forzata, da condizioni di vita senza prospettive, regimi autoritari, cambiamenti climatici. In un continente come l'Africa, fatto da Stati di origine coloniale, con confini tracciati a tavolino da noi europei, viaggiare è ancora più normale e essenziale per la sopravvivenza rispetto all'Europa. E non a caso la maggior parte delle migrazioni avviene all'interno dell'Africa... Chi cerca di attraversare il Mediterraneo è una minoranza esigua. Ci spaventano forse perché attraverso di loro riviviamo quello che volevamo dimenticare, il trauma originario dell'Europa: la guerra, la fame, i grandi spostamenti di persone.

Sulla nave Aquarius che tipo di persone hai conosciuto?

Sulla Aquarius, fra oltre 700 persone tratte in salvo in ore e ore di operazioni dalla Ong Sos Méditerranée, che gestisce la nave, uno dei primi a salutarmi è stato un ragazzo eritreo, che ha iniziato a parlarmi in italiano. Aveva lavorato come volontario con una piccola ong italiana ad Asmara, dentro un ospedale, e aveva poi fatto un corso di italiano. Ci siamo poi divertiti, con altri, eritrei e somali, a elencare le parole italiane presenti nelle loro lingue. Persone con un livello di istruzione buono, che avevano terminato le superiori o anche l'università, per quanto possibile in un Paese in guerra come la Somalia. Ma tutte consapevoli, più di molti italiani, del legame fra i nostri Paesi, di quella storia coloniale che in Italia abbiamo rimosso e che loro, attraverso la lingua, e le storie famigliari, portano con sé. Anche questo ha un grande peso nelle migrazioni, che la nostra società non riesce ancora a cogliere. Più in generale, fra chi viaggia le motivazioni sono così tante e le scelte diverse, che anche i livelli di istruzione lo sono. Molti giovani sperano però di trovare anche questo in Europa: la possibilità di studiare per aprirsi al mondo e contribuire al futuro del loro paese.

Cosa sapevano i tuoi compagni di viaggio di quelli “passati” prima di loro? 
 

La comunicazione è una parte fondamentale di questi viaggi. Ci sono immagini dell’Europa che inevitabilmente attraggono, in un mondo globale in cui tutto sembra raggiungibile. Le foto caricate su Facebook da amici che sono arrivati, le immagini viste via internet... spesso questa visione idilliaca oscura la parte più dolorosa e dura, cioè quel viaggio in cui forse metà dei viaggiatori non sopravvive. Gli stessi trafficanti utilizzano i social media e le fotografie, per attirare nuovi clienti in alcuni casi. Ma poi, ripetendomi, posso dire che la conoscenza del viaggio cambia da persona a persona: c’è chi ha la mappa stampata in testa e chi non sa che prima della costa libica c’è il Sahara. E i trafficanti ne approfittano: dalle coste libiche indicano le luci delle piattaforme petrolifere, a sole 20 miglia, dicendo che quella è l’Italia.

Come giornalista, quale ruolo attribuisci a giornalismo nella costruzione dell’opinione pubblica sul tema dei migranti?

Il giornalismo ha un ruolo centrale, enorme. Spesso ha disatteso il suo dovere di racconto della realtà, di servizio pubblico a tutti i cittadini. Lo ha fatto accodandosi a un clima politico centrato sulla sicurezza, sull'idea di invasione... termini come "ondata", "esodo", dicono tutto su questo approccio. È un giornalismo che sta nelle redazioni, si basa su comunicati, notizie di agenzia... e va poco sul campo, non incontra le persone, i protagonisti di questa storia. Per fortuna le eccezioni ci sono, ottimi colleghi che preferiscono - citando l'ex inviato Rai Ennio Remondino, con cui avevo fatto un corso - il marciapiede alla scrivania.

Che piani hai per il futuro immediato: continuerai a lavorare sul tema?

Al momento sono sulla nave Golfo Azzurro, della ong Proactiva. In futuro ho diversi progetti, sempre sul tema... con alcuni colleghi stiamo parlando di realizzare dei documentari, al momento lavoriamo a tre idee, vedremo se troveremo finanziamenti adeguati per iniziare. Mi piacerebbe da tempo scrivere un libro, fare un lavoro di più lungo periodo. E poi, nei prossimi mesi, tornare in Africa occidentale, alle origini dei viaggi, per raccontare anche questo, e una parte di quello che avviene in questi paesi, che trova troppo poco spazio sui media nostrani. Insomma, le idee non mancano, ora avrò ancora alcune presentazioni del documentario "Wallah - Je te jure" e proverò a riordinarle per buttarmi in nuove avventure. 

Giacomo Zandonini 

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