www.unimondo.org/Guide/Diritti-umani/Popoli-minacciati/Osama-I-miei-sette-anni-nelle-carceri-siriane-227205
Osama: «I miei sette anni nelle carceri siriane»
Popoli minacciati
Stampa

Foto: Unsplash.com
Una cella angusta, fredda e buia avvolta, in un silenzio lungo sette anni. Un silenzio interrotto solo da urla e pianti. Osama è uno delle migliaia di minorenni finiti nelle carceri del governo siriano e spariti per anni dietro le sbarre, lontani dalle loro famiglie e dalle loro vite di un tempo.
“Sono passati due anni dal mio rilascio, ma ancora oggi, ogni notte, mi sveglio con il cuore in gola per via degli incubi”, racconta il giovane. Il volto è ancora quello di un bambino, come se il tempo, per lui, si fosse fermato, nonostante gli orrori subiti. Fino al mese di ottobre del 2013 era uno studente di liceo, quando la sua vita è stata sconvolta dagli eventi legati alla guerra, scoppiata due anni prima. Riuscendo a sfuggire al controllo dei genitori, Osama aveva preso parte a qualche manifestazione antigovernativa, unendosi a quel movimento laico, pacifista e spontaneo nato per esprimere dissenso contro il regime di Damasco e chiedere riforme politiche e sociali. Proprio in occasione di un corteo Osama è stato fermato dalle forze dell’ordine e condotto a Fere’è al Khatib, uno dei rami della sicurezza nazionale.
“Avevo assistito alla repressione di alcune manifestazioni, ma ero sempre riuscito a sfuggire prima che i militari partissero con l’offensiva. Quel giorno sono stato colpito alle spalle e sono caduto a terra. Mi hanno picchiato e poi caricato con altri manifestanti, bendandomi e ammanettandomi con le mani dietro alla schiena”. L’incubo per Osama, ma anche per la sua famiglia, è solo all’inizio. I genitori incaricano subito un avvocato di seguire il caso del figlio. Alcuni funzionari corrotti promettono loro informazioni in cambio di denaro, ma ogni volta tergiversano. Il giovane, intanto, per i primi quattro mesi viene interrogato e torturato, fisicamente e psicologicamente, ogni giorno. I suoi carcerieri lo accusano di essere colpevole dell’uccisione di alcuni soldati, ma lui si dichiara totalmente estraneo ai fatti. Ha solo sedici anni, non ha mai toccato un’arma e la sua vita è uguale a quella di tanti giovani siriani della borghesia damascena, impegnati tra gli studi e lo sport. Il terrore, la stanchezza e la paura portano poi Osama a cedere per tentare di salvarsi.
Gli viene estorta una finta confessione e viene condannato all’ergastolo. Lo studente si sente morire dentro; accusato di un crimine orribile che non ha mai commesso e rimasto completamente solo, lontano dalla sua famiglia, dai suoi amici, dalla sua scuola, sa che morirà in prigione. A un anno dalla sua detenzione i familiari riescono finalmente a sapere dove si trova e per la prima volta Osama vede un avvocato, ma solo per alcuni minuti. In cella è uno dei più giovani e gli altri detenuti, che condividono le sue sofferenze e privazioni, cercano in qualche modo di confortarlo. Durante un trasferimento Osama e altri detenuti tentano di scappare. È una giornata di pioggia e tra i fuggitivi ci sono anche due giovani donne coi loro figli, ma riescono a catturarli presto. Vengono portati nella famigerata prigione di Sednaya e subiscono una nuova hafla, la cosiddetta festa, il modo in cui vengono chiamate le torture per i nuovi arrivati in prigione. “Pensavo che le torture dopo l’arresto fossero l’incubo peggiore, invece, ho scoperto che esisteva un livello persino più atroce, con scosse elettriche sui genitali, bastonate sui denti, umiliazioni e abusi irripetibili. Hanno sperimentato su di noi anche ‘Lakhdar Ibrahimi [1]’, un tubo di plastica con cui venivamo frustati, in grado di aprire la pelle e tagliare la carne”, racconta. Uno dei giovani che era con lui muore dopo tre giorni a causa delle torture, un altro sopravvive otto giorni, poi spira in un mare di sangue. Osama perde diversi denti per via delle bastonate e alcune ferite si infettano...