Le ferite aperte della Crimea

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Quest’anno le luci sul palco di Eurovision, il Festival della musica europea appena conclusosi, hanno illuminato loro malgrado anche uno dei più cocenti conflitti nel cuore dell’Europa. Pur osservando scrupolosamente il regolamento del Festival che proibisce riferimenti politici d’attualità, la cantante ucraina Jamala ha cantato e ha vinto con “1944”, il cui testo racconta il dramma degli oltre 240mila tatari accusati di connivenza col regime nazista e deportati in quell’anno da Stalin dalla Crimea all’Asia centrale. Sürgünlik, “deportazione” in lingua tatara, è un dramma che attende ancora di essere riconosciuto quale conclamato genocidio e contribuisce al confronto tra Ucraina e Russia. Un ulteriore elemento quadra meglio il cerchio: Susana Jamaladinova, in arte Jamala, la cantante scelta dall’Ucraina per farsi rappresentare nel consesso musicale europeo, è di etnia tatara e originaria della Crimea, territorio da poco più di due anni sotto il controllo della Russia. Non voglio che la storia si ripeta ha dichiarato Jamala nelle numerose interviste dei media internazionali, richiamando la situazione attuale della Crimea e in particolare la condizione dei tatari pur non facendo esplicitamente quel nome: Vladimir Putin, il nuovo “zar” russo.  

Da tempo è calata l’attenzione sul conflitto armato tra Kiev e Mosca innescato dal rovesciamento del presidente ucraino Viktor Ianukovich nell’aprile 2014 e dall’uscita del Paese dall’orbita della Russia. Gli scontri tra l’esercito regolare ucraino e i “ribelli” delle province filorusse di Donetsk e Luhansk hanno lasciato sul terreno oltre 9mila morti ma lo scorso anno il raggiungimento di un accordo per il cessate il fuoco ha trasformato la guerra in un conflitto a bassa densità, con il congelamento de facto della situazione pur non riuscendo affatto a pervenire a un accordo di pace.

È però la situazione che si è configurata in Crimea a suscitare maggiore interesse. A distanza di due anni dal referendum del 16 marzo 2014 che decretò pressoché all’unanimità la secessione dall’Ucraina e il passaggio della Crimea a soggetto della Federazione Russa, oggi la realtà politica rimane immutata: la Crimea è attualmente russa e a poco sono valse le accuse della comunità internazionale di farsa e di violazione della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina nonché delle norme del diritto internazionale. Anzi, piuttosto sembra prevalere una sorta di accettazione della “nuova normalità” del territorio. Non si tratta tuttavia di un successo russo tout court: la penisola appare tremendamente isolata, dall’Ucraina chiaramente ma anche dalla Russia a causa della povertà di infrastrutture che rende difficile ogni tipo di rifornimento, dai generi alimentari alla corrente elettrica. Le condizioni di vita della popolazione si sono di fatto deteriorate con il peggioramento dell’economia, i limiti alle importazioni a causa dell’embargo in corso e il comprensibile crollo del settore turistico, una volta molto attivo e redditizio. E malgrado l’area stia diventando sempre più strategica per gli interessi del colosso russo, specie a fronte dell’intervento della Russia in Siria e del confronto tra Mosca e Ankara, le continue sovvenzioni russe alla Crimea stanno ricevendo una comprensibile stretta determinata dall’economia in declino di Mosca. Il risultato? La penisola sta diventando sempre più militarizzata a causa delle sue potenzialità strategiche, ma anche per monitorare le aree vulnerabili nel Caucaso.

C’è però di più. In questi due anni di passaggio della Crimea sotto il controllo russo, l’ong “Crimea SOS” ha documentato circa 220 casi di sparizioni, esecuzioni extragiudiziali, torture e maltrattamenti in concomitanza con una governance dal pugno di ferro, volta a reprimere chiunque, in particolare appartenente alle minoranze nazionali, metta in discussione l’occupazione russa. Per ora però la maggior parte dei russi (nuovi e vecchi) continua a dare fiducia a Putin, che aveva tra l’altro promesso che la Crimea sarebbe stata russa, ma anche ucraina e tatara, facendo riferimento alle due principali minoranze etniche della Penisola. Non c’è però da nascondere che in breve tempo i cittadini identificati come russi sono saliti fortemente a dispetto degli ucraini (scesi dal 24 a poco più del 15%) e dei tatari (che, secondo fonti, ad oggi costituiscono la metà dei 40mila individui che hanno lasciato la Crimea dal marzo 2014). Difatti, dopo un primo momento in cui i russi hanno espresso aperture sui potenziali benefici per i tatati di una loro amministrazione, in seguito l’atteggiamento delle autorità occupanti si è fatto sempre più ostile verso quella minoranza musulmana e turcofona che non ha mai fatto mistero della propria avversione all’occupazione russa: vittime eccellenti sono state Refat Chubarov e Mustafa Abdülcemil Qırımoğlu, i leader eletti dell’organo di rappresentanza tatara in Crimea (il cosiddetto Mejlis), banditi dalla Crimea per cinque anni dalle autorità russe per presunto “estremismo”. Più recentemente il procuratore generale della Crimea, nominato dopo l’annessione russa, ha sospeso le attività del Mejlis; dal 1991 l’organo costituito da 33 membri svolgeva una funzione di raccordo tra la comunità tatara e le autorità ucraine. Proprio la possibile radicalizzazione della comunità dei tatari della Crimea, sostenuti dall’Ucraina, ma anche dalla Turchia e da altri soggetti coinvolti nel caotico conflitto siriano, costituisce un timore concreto a cui la Russia ha tentato in questo modo di porre mano. Solo nel novembre 2015 il Parlamento ucraino ha classificato la deportazione dei tatari di Crimea del 1944 come “genocidio”, tentando così di mantenere un “cavallo di Troia” in funzione anti-russa all’interno del territorio. Di fatto però l’isolamento della Crimea sembra continuare a fare il gioco russo, destinando la penisola a entrare definitivamente nell’orbita di Mosca, comunità tatara inclusa.

Miriam Rossi

Miriam Rossi (Viterbo, 1981). Dottoressa di ricerca in Storia delle Relazioni e delle Organizzazioni Internazionali, è esperta di diritti umani, ONU e politica internazionale. Dopo 10 anni nel mondo della ricerca e altrettanti nel settore della cooperazione internazionale (e aver imparato a fare formazione, progettazione e comunicazione), attualmente opera all'interno dell'Università degli studi di Trento per il più ampio trasferimento della conoscenza e del sapere scientifico.

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