La larga vittoria di Abe

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Una vittoria schiacciante, quella di Shinzo Abe, alle 48esime elezioni legislative che si sono tenute ieri in Giappone. Il premier uscente si prepara a diventare il primo ministro col mandato più lungo della storia del Giappone. Ricordiamo che occupò l’ufficio di primo ministro già nel dicembre del 2012 col Partito Democratico, in maggioranza dal 2011. Negli scorsi decenni eravamo abituati a cambi repentini dei primi ministri nipponici, che duravano in carica anche pochi mesi.

Abe è riuscito, abilmente, non solo a restare in carica più dei suoi predecessori, ma ad infondere fiducia agli elettori, tanto da essere riconfermato mentre il suo partito ha guadagnato addirittura 312 seggi al Parlamento su di un totale di 465: una super maggioranza che gli assicurerà mano libera sulla politica delle riforme. Allora avanti: ma in che direzione? Questa è la vera domanda. Sicuramente verso il consolidamento della sua politica economica, con una forte spinta verso il credito alle imprese. Su questo primo punto sono stati versati fiumi d’inchiostro, non mi trattengo oltre.

Più interessante sono un secondo e un terzo punto delle possibili riforme. Innanzitutto il cambiamento della vecchia costituzione, redatta dopo la disastrosa esperienza della Seconda guerra mondiale, persa dal Giappone; una costituzione che, con l’articolo 9, non permette oggi al governo giapponese di mantenere una forza militare se non per pura difesa. Dobbiamo ricordare che ormai da anni il Giappone è il miglior acquirente di armamenti (statunitensi) della regione e i partner industriali giapponesi hanno uno strettissimo legame con Washington, tanto che le industrie belliche giapponesi, Mitsubishi, Kawasaki, Hitachi e Tokyo Keiki hanno visto le loro quotazioni in borsa balzare alle stelle all’indomani della vittoria di Trump nelle elezioni presidenziali statunitensi. 

La costituzione giapponese, in effetti, redatta nel 1946 dagli alleati col consenso di alcuni esperti giapponesi, ma in pratica era una costituzione “pacifica ma imposta” a una nazione che aveva miseramente perso la guerra dopo aver attaccato e distrutto molte nazioni in Asia. Ciò ha lasciato rancori irrisolti: un passato che non dobbiamo dimenticare né sottovalutare, e che pesa ancora oggi sull’immagine del Giappone in alcune nazioni come Corea del Sud, Cina, Filippine, Thailandia, Myanmar e Vietnam. Il Giappone non ha in effetti ancora formalmente e chiaramente chiesto scusa per i crimini di guerra, soprattutto per le centinaia di migliaia di donne schiavizzate per il sesso a favore dei soldati sul fronte. Non dimentichiamoci della statua di una donna seduta su una panchina, che è stata posta davanti all’ambasciata giapponese di Seul (pur con le relative proteste del governo giapponese), a simboleggiare l’attesa delle scuse che tutt’oggi mancano verso le donne asiatiche schiavizzate.

Terzo punto della “Abepolitic”, collegato a questo secondo punto, è naturalmente la politica di difesa nei confronti della Corea del Nord e di contenimento della Cina, nel Mar cinese meridionale. Tutto questo, si sa, costa in termini di investimenti militari, qualcosa come 40 miliardi di euro (incremento quasi costante dal 2011, anno in cui il Partito democratico di Abe arrivò al governo); a cui vanno aggiunti anche l’1,2 miliardi di euro per il mantenimento delle truppe statunitensi sul suolo giapponese (45 mila uomini) e per la Settima flotta Usa di stanza a Yokosuka. Tutte queste spese sono coperte da Tokyo per il 75% del totale.

Trump aveva reso noto che la “protezione” Usa dalla presunta minaccia rappresentata da Cina e Corea del Nord avrebbe richiesto un maggiore sforzo finanziario da parte di Tokyo, nonostante il Giappone, primo creditore estero degli Stati Uniti, paghi già carissimo questo servizio. Abe è riuscito ad ottenere non solo il rinvio dei colloqui aventi come oggetto la richiesta Usa di un maggiore contributo di Tokyo al mantenimento delle truppe Usa, ma ha anche avuto diritto a un aperto elogio dal capo del Pentagono James Mattis per l’incremento delle spese militari attuato dal governo giapponese in questi ultimi anni.

Insomma, sembra che il cambiamento della politica giapponese non sarà certo indirizzato verso la pace della regione, quanto verso un inasprimento dei rapporti sia con la Corea del Nord che con la Cina. Anche se ci sarebbe bisogno proprio di rapporti diplomatici sereni e seri colloqui verso un disarmo globale.

George Ritinsky da Cittanuova.it

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