I profughi siriani sono rock

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Adriano Celentano, incolonnando gesti, azioni, persone, musiche e fatti in rock o lenti, ha avuto con un programma televisivo di qualche anno fa parecchia fortuna. Ha dato anche a questi due termini un senso nuovo, inconsueto, fuori dalle righe e corrispondente a quell’atteggiamento che da sempre lo caratterizza. Provocatoriamente e mutuando una sua espressione, vi dico allora oggi una cosa: i profughi siriani sono rock.

Non pensate? Se ne parla ovunque, che suscitino compassione, solidarietà o polemiche; tutti li vogliono e sono disposti a ospitarli aiutandoli a ricostruirsi una vita, perché sono i profughi buoni, quelli che “stanno male veramente, perché la guerra lì c’è davvero”. Anzi, direi di più: occuparsi di profughi siriani in generale è rock, mediaticamente è un argomento che tira, fa audience, appassiona i dibattiti e infervora gli animi. Ma adesso, per favore, sorvoliamo su queste parole, sorvoliamo sui pressapochismi da bar che distinguono tra migranti che hanno diritto a migrare e migranti che quel diritto non lo hanno, abbandoniamo la disgustosa minaccia di una guerra tra poveri, tra chi può permettersi di oltrepassare i confini perché la sua miseria è più misera di quella di coloro che, vergognosamente per noi e non per loro, affogano nella povertà nell’indifferenza generale, schiacciati da commenti qualunquisti nascosti dietro al dito del “cosa possiamo fare?”. Tralasciamo anche vili discorsi sulla provenienza dei migranti, perché la rosa dei venti porta sempre folate di rabbie, ingiustizie e battaglie evidenti o latenti, qualunque sia la direzione da cui soffiano le correnti.

Rimane una sola ragione per cui, e proprio a ragione, si possa dire che i profughi siriani sono (anche) rock. E questa ragione ha un nome, Khebez Dawle. Un nome (traducibile in “Il pane dello Stato”) che porta con sé storie di assistenzialismo e di oppressione, di dipendenza dal potere - e dal pane distribuito appunto dallo Stato per nutrire le pance ma non le menti, per sfamare senza concedere libertà.

Un nome al singolare collettivo, perché i Khebez Dawle sono cinque. Cinque ragazzi che avevano scelto il rifugio di Beirut a tamponamento della tragica incertezza bellica siriana e che la provvisorietà degli eventi ha spinto ad intraprendere quel viaggio di cui tutti ormai sappiamo, il viaggio dei disperati che passa per Lesbo e Atene, che attraversa i Balcani e spesso si interrompe non lontano da noi. In Libano i musicisti hanno venduto gli strumenti con i quali suonavano nei club di Beirut, e con il ricavato hanno ottenuto i soldi per il viaggio verso l’Europa. 1200 dollari a testa, per un percorso che per i cinque siriani non assomigliava affatto alle auspicate tappe di una tournée: nessuna goupie a chiedere autografi, nessun merchandising per i fan, nessun service audio luci né bodyguard all’ingresso.

La loro è stata una tournée anomala, in cui hanno distribuito gratuitamente i cd del loro album dopo essere approdati sulle coste greche, scendendo assieme ad altri da un malandato gommone e immergendosi subito in quell’atmosfera surreale che ci è ormai nota come “spiaggia degli sbarchi”: da un lato i turisti, dall’altro i migranti. Una tournée in cui hanno comperato una chitarra per suonarla all’aperto, perché “non è facile stare giorni senza fare musica”. Fino al primo vero concerto, allestito a Zagabria dopo 1700 km percorsi a piedi tra le vigne e le mine inesplose tra Serbia e Croazia. E poi, il 3 ottobre scorso, la partecipazione alla WienWoche di Vienna, ospitati nel teatro di Kleynkunst.

La band, che piacerà a chi ascolta Pink Floyd, Pearl Jam o indie rock inglese, è nata a Damasco nel 2010 e nella propria storia personale ha incontrato in prima linea la tragedia quando, con l’esplosione della primavera siriana del 2011, il batterista che si era apertamente schierato con i dimostranti è stato trovato morto. Così la scelta - pressoché obbligata - è stata quella di tanti altri: incamminarsi verso un altrove che, nel loro caso, ha come mèta Berlino, città poliedrica e con una riconosciuta esperienza nell’accoglienza di giovani e artisti.

I cinque ragazzi non si sentono diversi dai loro connazionali, ma riconoscono di avere una possibilità in più: quella di poter dare voce alle loro storie, di potersi e volersi assumere la responsabilità di non far cadere nel silenzio i racconti di vite infrante “sul campo di battaglia di una guerra internazionale”. “I siriani sono persone civili, con una ricca eredità culturale. Sono una nazione sviluppata e la maggior parte di noi ha un buon livello d’istruzione”, afferma Asis, leader del gruppo. In Siria però non hanno mai suonato in pubblico: avrebbero dovuto ottenere il permesso delle autorità, e i loro testi, gravati dalla sincerità di parole come “mi avete ucciso, e poi mi avete condannato perché ho parlato”, all’autorità non erano evidentemente graditi.

Anche a loro quindi, così come a tutti gli altri che non imbracciano chitarre ma semplicemente speranze, non può non andare l’augurio suggerito dal leader stesso del gruppo: “Questo viaggio è speciale, lo fai una volta nella vita. Impari tante cose sulle persone, sui confini. Perdi fiducia nei documenti, nei passaporti, nelle carte d’identità, nelle nazionalità. Dentro di te cresce più forte, decisamente molto più forte, la fiducia negli esseri umani.”

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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