Fukushima, impigliati nella rete della radioattività

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Foto: Unsplash.com

Un annuncio che sta sollevando non poche polemiche: il Giappone riverserà nell’Oceano l’acqua utilizzata per raffreddare i reattori dopo il tragico incidente della centrale nucleare di Fukushima. Apparentemente è solo acqua che torna all’acqua, no? No.

Perché quell’acqua è radioattiva: una volta utilizzata (dopo 10 anni dalla catastrofe per raffreddare i reattori servono ancora fino a 200 metri cubi al giorno) l’acqua risulta pesantemente contaminata (62 radionuclidi, tra i quali stronzio-90, cesio-137 e trizio, a livelli superiori ai limiti di legge). Ma non si tratta solo di questo: si parla anche dell’acqua piovana e delle falde acquifere, stoccata e oggetto di dibattiti e discussioni da anni. 

Il problema è una decisione fortemente impopolare e a lungo rimandata, perché fino ad ora l’acqua è stata conservata in loco in attesa di capire il da farsi. Un orizzonte di possibilità che sfociano in quest’ultima posizione presa dalle autorità nipponiche e, com’è facile immaginare, ostacolata sia dall’opinione pubblica che da preoccupazioni riguardanti la sicurezza e la salute, i diritti e il futuro delle persone e dell’ecosistema marino. Una decisione che si rende però ormai improcrastinabile perché i livelli massimi dei serbatoi di stoccaggio stanno per essere raggiunti – il trend di accumulo è di circa 170 tonnellate al giorno e il rilascio dei serbatoi ad oggi già pieni potrebbe richiedere decenni. Entro il prossimo anno occorre prendere una posizione e agire, come dichiarato dal Primo Ministro Yoshihide Suga.

Il Governo ha rassicurato che l’operazione verrà eseguita nel massimo rispetto dei protocolli, ma attivisti di Greenpeace sostengono che questa decisione sia frutto semplicemente di una valutazione dei metodi più economici – e più rischiosi – per liberarsi dell’acqua inquinata, anziché della scelta di utilizzare le migliori tecnologie per aumentare i bacini di conservazione dell’acqua contaminata (nel tempo gli isotopi decadono naturalmente) sviluppando contemporaneamente soluzioni idonee a rimuovere le radiazioni nei processi di stoccaggio, prima di liberare di nuovo l’acqua in ambiente naturale. 

Perché non sarà poca: ad oggi si parla di un totale di 1,25 milioni di tonnellate, che andrà a sciacquare via anni di incontri con le parti coinvolte, a partire da quelli con i rappresentanti dei pescatori giapponesi (oltre 1500 pescatori in zona), ovviamente contrari a questa scelta e determinati a difendere la sicurezza del pescato, che subirebbe una pubblicità negativa per un’economia ripartita a fatica. Il fatturato è infatti del solo 20% rispetto a quello precedente al 2011 e si sopravvive contando per lo più su ristoranti e rivendite locali per un’attività che resta comunque fondamentale per il sostentamento alimentare ed economico. E che vanno oltre le coste giapponesi. Le conseguenze internazionali lambiscono anche l’Italia: secondo dati Istat 2020, il nostro Paese importa dal Giappone oltre 21 milioni di chili tra pesci, crostacei e molluschi.

A livello globale la decisione inasprisce inevitabilmente le posizioni di Paesi vicini e lontani: Cina e Corea del Sud hanno espresso forti preoccupazioni, gli Stati Uniti hanno apprezzato la trasparenza del Governo giapponese rispetto a una decisione sfidante che sembra “aver adottato un approccio in accordo con gli standard di sicurezza nucleare globalmente accettati”. All’annuncio è stato dato il benvenuto anche dalle Nazioni Unite, in particolare dall’International Atomic Energy Agency (IAEA), che ha messo a disposizione il suo supporto tecnico a fronte di una pratica in linea con ciò che avviene a livello internazionale. Una questione che resta e resterà dibattuta, anche perché voci autorevoli di scienziati e ricercatori non sono concordi: da un lato si invita a non alimentare allarmismi e si garantisce la sicurezza dell’operazione (che rilasciando gradualmente l’acqua nell’oceano in un tempo di oltre 40 anni permetterebbe non solo di gestire meglio l’acqua contaminata, che comunque andrà progressivamente aumentando, ma anche di controllare meglio i livelli di sostanze radioattive disperse nell’ambiente) e dall’altro si sollevano forti perplessità, non solo in ambito ambientalista ma anche tra i corridoi di realtà autorevoli come la Woods Hole Oceanographic Institution che ha studiato le acque intorno a Fukushima e che segnala rischi non prevedibili per la salute e connessi all’accumulo di metalli pesanti nei pesci e sui fondali marini.

Potrebbe anche non essere la tragedia nella tragedia che alcuni paventano, ma rimane di certo una questione che non garantisce un risultato a rischio zero e che resta controversa e molto delicata… perché potremmo ritrovarci a sbrogliare la matassa dello stoccaggio dell’acqua radioattiva pagando il prezzo di reti vuote di pesci, di vita e di futuro.

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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