Comunità indigene dell'America Latina: una lotta senza fine

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Dopo 300 anni di colonialismo, oppressioni, sfruttamenti e saccheggiamenti minerali e petroliferi, ed altri 200 anni di indipendenza, le popolazioni indigene dell’Ecuador si ritrovano a convivere con un presente ben lontano da un’effettiva rappresentazione politica. Ben 187 anni fa nasceva la Repubblica dell’Ecuador, con una Carta Fondamentale che consacrava l’esclusione dei popoli indigeni e neri dagli affari politici. Da allora poco si è progredito, per lo meno fino all’approvazione della Costituzione del 1998, dove si riconosceva l’identità dei popoli indigeni come nazionalità di radici ancestrali, e successivamente nel 2008, quando la nuova Costituzione di Rafael Correa ne ampliava i diritti collettivi in materia di lingua, salute, educazione, metodi medicinali, etc. Tuttavia i diritti sanciti sulla carta non si vedono ancora riflessi nella realtà di tutti i giorni.

La CONAIE (Confederaciòn de Nacionalidades Indigenas del Ecuador) istituita nel 1987 come virtuoso vessillo a difesa dei diritti delle popolazioni native, è apparsa come un palliativo, una consolazione, piú che una voce di protesta univoca e altisonante. Se da una parte è vero che la CONAIE sta portando avanti lotte importanti, è altrettanto vero che da sola non può sobbarcarsi le responsabilità di una moltitudine di persone, appartenenti a un ventaglio di nazionalità, popoli e comunità molto diversi tra loro. Sebbene il governo di Lenin Moreno si sia dichiarato aperto al dialago fin dal suo insediamento, non si aspettano grandi colpi di scena nei prossimi 4 anni di mandato, in una negoziazione ormai senza tempo. Non passa settimana senza che i rotocalchi nazionali riportino una qualche ingiustizia nei confronti di popoli indigeni: denunce per espropri, operazioni estrattive illegali (specialmente minerarie, principale flagello dei popoli originari dell’America Latina), atti offensivi e discriminatori, abusi ambientali di territori di proprietà indigena, truffe ai loro danni, indifferenza verso la vulnerabilità di determinate culture, limitato accesso a giustizia e diritti umani.Casualmente vi è sempre di mezzo un’interesse “multinazionale”, che si contrappone a chi quelle terre le ha abitate da chissà quante generazioni. Come nel caso della compagnia petrolifera Chevron-Texaco, che da oltre 25 anni è accusata di inquinamento ambientale per aver rilasciato residui petroliferi e chimici nel nord della regione amazzonica. Un interesse che finisce per obbligare gli autoctoni a una scorpacciata di sacrifici, “per il bene della patria”: le fuoriuscite di petrolio hanno provocato piaghe devastanti, tra le quali maggiori possibilità di contrarre malattie come il cancro, contaminazione intenzionale di fiumi ed estuari, mortalità per malformazioni, leucemia, cancro e malnutrizione dovuti al contatto con le sostanze tossiche, violazioni sessuali da parte dei lavoratori nei confronti delle donne dell'Amazzonia e aumento di aborti rispetto ad altre aree. Infine, la Corte Suprema di Gibilterra, in una sua recente risoluzione sul caso, ordina la ricompensa di 38 milioni di euro per danni morali e interessiIl vero dramma è che quasi 500 anni di storia non paiono aver cambiato le carte in tavola.

Secondo il sistema di indicadori sociali della CODENPE (Consejo de Desarrollo de las Nacionalidades y Pueblos del Ecuadorin Ecuador esistono 13 diverse nazionalità indigene, distribuite nelle tre macro regioni del paese: costa, sierra e naturalmente amazzonia. Stiamo parlando di una dovizia di comunità che a distanza di tanti secoli mantengono la propria lingua e cultura atavica, spesso tramandata di padre in figlio, o di madre in figlia. Tra loro vi sono i Chachi della provincia di Esmeraldas, gli Achuar, Shuar e Huaorani, stabiliti nelle province amazzoniche, e ovviamente i Quichua che ricoprono gran parte della cordilleraandina e ampli territori amazzonici. All’interno di quest’ultimi si distinguono ulteriori sottogruppi etnici, che per usanze, dialetto, localizzazione geografica e attività economiche conservano una loro identità. Andando poi a spulciare la foresta amazzonica, scopriamo la sopravvivenza di popoli isolati, cioè popoli senza contatto volontario con la società nazionale dominante, come i Tagaeri, Taromenane, e Oñamenane. Nazionalità, popoli e gruppi etnici potrebbero essere di piú ma molti sono andati dispersi come i Quitucara, gli stessi che hanno dato il nome alla capitale. In un paese dove resti e rovine archeologiche di antiche civiltà scarseggiano, perché essenzialmente rase al suolo, le comunità indigene, nella loro autenticità, rappresentano forse il patrimonio storico piú importante dell’epoca pre-colombina e pre-incaica, da proteggere, rispettare e diffondere. Un principio sancito nella Costituzione, ma che cozza ancora profondamente con la quotidianità che si respira nei villaggi e denunciata nei movimenti di resistenza permanente della CONAIE.

Il censo alla popolazione realizzato nel 2010 si basava su un criterio di auto-identificazione e solo il 7% della popolazione si è riconosciuto nella categoria indigena (rispetto a un 72% di meticci), quando la percezione è che siano molti di piú. Secondo lo studio condotto dalla Federal Research Division, infatti, la percentuale dei meticci e degli indigeni sarebbe paritaria ed equivalente a un 40% ciascuno. Dello stesso parere risulta l’antropologo messicano Francisco Lizcano Fernandez, le cui ricerche stimano che la popolazione ecuadoregna sia conformata da un 41% di meticci, un 39% da indios americani, un 10% da bianchi e un ultimo 10% da mulatti e afroamericani. 

Questa discrepanza, a mio giudizio, sottolinea già un sintomo di discriminazione latente, agganciato a un colonialismo moderno che cavalca sulla superiorità dei bianchi e suppone una certa vergogna nell’appartenere a gruppi di popolazione native. Se la vergogna ci pare un concetto eccessivo, si dovrebbero fare due passi nelle scuole pubbliche di certe cittadine di provincia, dove tanti ragazzini e ragazzine, ormai proiettati verso orizzonti virtuali e risucchiati da tecnologie mobili, non ne vogliono sapere di radici ancestrali, tradizioni e lingue da proteggere, men che meno di nomi bizzarri di una cultura che conoscono sempre meno, in quanto bistrattata e malamente insegnata. Le giovani generazioni preferiscono imparare un po’ di inglese, farsi furbi e rimanere sul vago quando gli si chiede da dove viene il proprio cognome, altra reminescenza coloniale, debellata solo in apparenza.

Solo fino a pochi decenni fa, la gerarchia ecclesiastica del paese obbligava a cambiare il cognome dei nativi in modo che potessero ricevere l'ordinazione sacerdotale. D'altra parte gli indiosnon potevano nemmeno occupare i banchi dei templi perché segregati dai propri signori. Senza andare troppo indietro nel tempo, nel 2007 Papa Benedetto XVI in una visita in Brasile sentenziava: “L'utopia di tornare a dare vita alle religioni precolombiane, separandole da Cristo e dalla Chiesa universale, non sarebbe un progresso, bensì un regresso”. Cara Chiesa, qui la vera involuzione sarebbe quella di perdere completamente la consapevolezza e il rapporto con queste civiltà e di ripristinare un momento storico violento e tragico, appoggiato dalla stessa Chiesa. E quel che più sconcerta è l’indifferenza generale della gente.Le famiglie native insistono nel mandare i figli in chiesa ogni domenica. I programmi scolastici parlano delle grandi conquiste di esploratori e condottieri occidentali, lasciando lacune imperdonabili. I musei sono vuoti, le biblioteche impolverate. Si celebra la scoperta dell’America, e si esibiscono genealogie di matrice spagnola con un orgoglio impossibile da ritrovare in famiglie Quichua. Il colonialismo non è una parola da libri di storia, sta accadendo tuttora, e si trascina dietro vittime inconsapevoli, in contrasto con le pompose parole costituzionali.

Come in altri paesi latinoamericani, in Ecuador la partecipazione democratica delle comunità indigene nella giostra politica non decolla. Le barriere, comunicative, discriminatorie tra connazionali sono molte. Difficile da credere per un paese poco piú popolato della Lombardia e Veneto. Ma se ci si ostina a dare voce a queste popolazioni attraverso mandatari governativi e ambasciatori che altro non fanno che sostituirsi alle loro voci, avremo solo versioni parziali.

Marco Grisenti

Laureato in Economia e Analisi Finanziaria, dal 2014 lavoro nel settore della finanza sostenibile con un occhio di riguardo per l'America Latina, che mi ha accolto per tanti anni. Ho collaborato con ONG attive nella microfinanza e nell’imprenditorialità sociale, ho spaziato in vari ruoli all'interno di società di consulenza e banche etiche, fino ad approdare a fondi d'investimento specializzati nell’impact investing. In una costante ricerca di risposte e soluzioni ai tanti problemi che affliggono il Sud del mondo, e non solo. Il viaggio - il partire senza sapere quando si torna, e verso quale nuova "casa" - è stato il fedele complice di anni tanto spensierati quanto impegnati, che mi hanno permesso di abbattere barriere fuori e dentro di me, assaporare panorami, odori e melodie di luoghi altrimenti ancora lontani, appagare una curiositá senza fine. Credo in un mondo più sano, equilibrato ed inclusivo, dove si possa valorizzare il diverso. Per Unimondo cerco di trasmettere, senza filtri, la veritá e la sensibilità che incontro e assimilo sul mio sentiero.

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