Castillo Presidente: la faccia dell’insoddisfazione politica peruviana

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Foto: Pixabay.com

Sono stati 8 lunghi giorni di scrutini, ritardi, riconteggi e contestazioni. Una pericolosa fase di stallo elettorale che rischiava di mettere ancora una volta a repentaglio la stabilità sociale del Perù. Ma, per fortuna, questa volta sembra essersi risolta in maniera pacifica: le schede sono state contabilizzate al 100% e Pedro Castillo, del partito di sinistra Peru Libre, si è convertito nel nuovo presidente della Repubblica Peruviana. Allo spoglio definitivo dei voti, Castillo ha ottenuto 8.835.579 voti, vale a dire il 50,12% di voti, una differenza di appena 44.058 preferenze su Keiko Fujimori, che ha ricevuto il sostegno di 8.791.521 votanti (49,88%). Un fazzoletto di voti di vantaggio, che dal ballottaggio celebrato il 6 giugno scorso fino a pochi giorni fa aveva tenuto in ballo la candidata del partito conservatore Fuerza Popular, nonché figlia del noto ex presidente Alberto Fujimori, più volte accusato e condannato - con prove - per crimini contro l’umanità durante i suoi governi dal 1990 al 2000. Pena che sta attualmente scontando.

Alla chiusura delle urne, Fujimori, vistasi minacciata dalla risalita del rivale nel conteggio dei voti, aveva iniziato a diffondere teorie di brogli elettorali, e aveva richiesto alla Giuria Elettorale Nazionale (JNE) l’annullamento di 800 postazioni elettorali, corrispondenti a circa 200 mila voti, secondo il suo partito ritenuti invalidi. Tuttavia, le lamentele di Fujimori sono state accolte con una certa diffidenza e incredulità dagli organi elettorali del Paese, oltre che dagli osservatori internazionali, tra i quali l'Organizzazione degli Stati Americani (OAS), presente la domenica per accompagnare la giornata elettorale. Di fatto, la JNE ha respinto la maggior parte delle richieste di annullamento, comprese alcune in seconda istanza, e ha terminato di controllare anche le ultime schede “incriminate”, che tuttavia mai sarebbero state in grado di alterare il risultato provvisorio. A questo punto, superato anche l’ultimo ostacolo, Castillo può ufficialmente essere considerato il nuovo presidente.

Il trionfo dell’ex insegnante rurale e sindacalista di Cajamarca Pedro Castillo, 51 anni, “il candidato scalzo” era ben lungi dall’essere pronosticato. In realtà, in pochi avrebbero scommesso su un ballottaggio Castillo-Fujimori, rappresentanti di due partiti praticamente agli antipodi ideologico-politici, che alla prima tornata elettorale avevano ricevuto l’appoggio di solo il 18,9% e 13,4% degli elettori rispettivamente. Da un parte Castillo, con un discorso economico marxista-leninista, promotore dello Stato imprenditore, pianificatore e assistenzialista, ma allo stesso tempo molto religioso e conservatore sui diritti sociali, essendo contro l'aborto o il matrimonio omosessuale. Dall’altro Fujimori, la reincarnazione del padre autoritario, riprendendo lo stesso orientamento economico a favore di un capitalismo vecchio stile, che promuove la libera iniziativa individuale. In oltre, Keiko, arrivata ormai al terzo tentativo di diventare la prima presidente donna in Perù, mantiene tuttora indagini aperte per presunto finanziamento illegale delle sue campagne presidenziali precedenti, del 2011 e 2016.

Lo scontro Castillo-Fujimori è stato anche il confronto tra due mondi paralleli distinti, fotografia di diversità e disuguaglianze che convivono parossisticamente nel paese: quello di un signore di un’umile cittadina andina, priva di tanti servizi pubblici essenziali, e quello della figlia di un ex-presidente, cresciuta in palazzi opulenti di fronte al mare di Lima.

Le elezioni peruviane hanno svelato uno dei contesti politici più frammentati degli ultimi anni, con 18 candidati alla prima tornata elettorale, di cui 9 concentrati tra il 5,6% e il 18,9% delle preferenze. Un marasma di partiti e movimenti che riflette lo stato confuso del popolo, e indubbiamente favorisce l’avanzata del populismo. Il voto per Castillo è certo anche un voto contestatore, di protesta, di un elettore che pretende maggiore partecipazione e soddisfazione dallo Stato, e lo vuole subito. È anche un elettore che esprime disagio di fronte all'impossibilità di risolvere i problemi storici del paese, e quindi probabilmente contro le élite della nazione, in prevalenza bianca e residenti nella capitale e nella zona costiera. Problemi che necessitano di analisi approfondite e ricette serie, e di un governo che le approvi.

Cosa tutt’altro che scontata se si considera l’alta divisione interna del Congresso scaturita dalla prima tornata elettorale. Qualsiasi fosse stato il risultato del ballottaggio avrebbe comunque proclamato un governo zoppo, indebolito dal forte potere di contrappeso che eserciterà il Congresso, all’interno del quale nessun partito ha una maggioranza. Tutto a conferma del fatto che il sistema legislativo e di promozione delle riforme necessarie potrebbe tornare ad essere paralizzato molto presto. Aldilà del risultato risicato del ballottaggio, è proprio la complicata governabilità del paese che preoccupa. Oltre a quella che è la vera notizia emersa da queste elezioni: l’assenza di una proposta politica seria in quello che è il secondo paese andino più popolato. Il popolo ha purtroppo sostenuto due partiti governati dal populismo, dalla corruzione e da ideologie anacronistiche. Certamente opposte, ma altrettanto pericolose... 

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