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COP27, le sfide climatiche e diplomatiche dell’Africa
Popoli minacciati
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Immagine: Word Gold Concil
Sebbene i Paesi africani contribuiscano solo al 4% delle emissioni globali, le previsioni dimostrano che entro il 2030 saranno 118 milioni gli africani a soffrire di grave siccità, inondazioni massicce e caldo estremo. Questi ultimi mesi sono stati solo un piccolo assaggio della catastrofe climatica che per l’Africa è destinata a diventare la norma. Dopo mesi di piogge senza precedenti, pesanti alluvioni hanno distrutto case e campi in Nigeria, Camerun, Niger e Ciad. Nel Corno d’Africa invece, dopo quattro stagioni di piogge scarse, se non assenti, una delle peggiori siccità degli ultimi decenni ha aggravato la crisi alimentare su cui influiscono anche i conflitti locali e l’instabilità economica provocata dal Covid-19 e dalla guerra in Ucraina. Quella in Etiopia, Kenya e Somalia è stata definita una “crisi umanitaria senza precedenti” con circa 22 milioni di persone che rischiano di morire di fame.
Sono queste le prospettive con cui i leader africani si preparano a partecipare alla Conferenza delle Nazioni Unite sul clima (COP27), che si terrà il prossimo mese a Sharm el Sheikh, in Egitto. Nonostante gli effetti della crisi climatica sul Continente africano siano sotto gli occhi di tutti, i negoziati internazionali saranno probabilmente dominati dai problemi e dalle preoccupazioni di un’altra parte del Mondo. L’ombra della crisi energica dell’Europa e la sua rinnovata fame di combustibili fossili incombono sul vertice internazionale. Come è sempre successo, la priorità del Nord ricadrà sulla propria sicurezza energetica, più importante di qualsiasi considerazione etica e morale sugli effetti disastrosi degli interessi europei per il resto del Mondo.
Quest’anno l’ipocrisia è più evidente che mai. Prima che la Russia invadesse l’Ucraina, scatenando una profonda crisi energetica, la disponibilità dei finanziamenti occidentali ai progetti per lo sfruttamento di combustibili fossili in Africa sembrava essere terminata. Nel 2019 la Banca Mondiale aveva dichiarato che avrebbe smesso di investire nell’estrazione di petrolio e gas dal suolo africano, pur accettando di concedere eccezioni per alcuni progetti di raffinazione che rispettassero condizioni rigorose. Nel 2021, diversi azionisti europei avevano proposto di eliminare anche queste eccezioni entro in 2025. Naturalmente nessuna di queste politiche, progettate deliberatamente per dissuadere i Paesi poveri dal costruire infrastrutture per lo sfruttamento delle proprie risorse naturali, sembravano applicarsi ai Paesi ricchi. Le cose oggi appaiono ben diverse. Negli ultimi mesi l’Europa ha dimenticato gli impegni etici e morali presi per combattere la crisi climatica: per colmare il vuoto lasciato dal gas russo e mantenere lo stile di vita europeo ad alta intensità di carbonio, l’Europa è tornata in Africa. L’Italia, ad esempio, ha stipulato a luglio con l’Algeria un accordo da 4 miliardi di dollari per aumentare le forniture di gas all’Europa. Si tratta solo dell’ultimo di una serie di intese firmate nei mesi precedenti con l’Angola, la Repubblica Democratica del Congo (RDC) e il Mozambico...