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Birmania: la farsa elettorale tra scontri e rifugiati
Popoli minacciati
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Ventimila rifugiati in tre giorni. Militari contro guerriglieri dissidenti Karen. Civili, per la maggior parte donne e bambini, in fuga dai violenti combattimenti tra i soldati regolari facenti capo al regime e un gruppo di ribelli della “Brigata 5” fedeli al generale dissidente Col Saw Lah Pwe e distaccatisi dal “Democratic Karen Buddhist Army” (Dkba). Lunedì mattina, i ribelli, dopo l’attacco ad una caserma e un ufficio postale, erano riusciti a conquistare la città di Myawaddy, a 6 chilometri dal confine con la Thailandia. Mae Sot, la piccola cittadina thailandese di frontiera, si è trovata così invasa da un’ondata di disperati in fuga. In quelle che dovevano essere e non sono state, le prime elezioni libere da 20 anni a questa parte, è successo anche questo.
«Dalla Birmania continuano ad arrivare profughi dopo le elezioni di domenica, qui calcolano che siano già 30mila» dice martedì mattina dalla città thailandese di Mae Sot, al confine con la Birmania, Cecilia Brighi, responsabile dei rapporti con i Paesi asiatici della Cisl. «Qui la popolazione si è mossa subito per aiutare le persone in fuga dal Paese confinante, ieri sera ho visto un’anziana parlamentare birmana eletta nel ’90 che a ottant’anni è partita in motocicletta per portare cibo e acqua ai suoi connazionali. I rifugiati politici birmani che vivono in Thailandia, insieme ai monaci, alla popolazione locale e alle Ong stanno portando aiuti e collaborando con il governo, che per il momento ha accolto i profughi in uno stadio e in un vecchio aeroporto».
Secondo le scarse informazioni che arrivano dal territorio birmano, a scatenare le violenze, pare essere più una disputa territoriale che le elezioni appena passate. Ma non è un caso che la lotta sia ripresa proprio dopo il voto. Nelle aree, infatti, la giunta militare si è rifiutata di installare dei seggi: ufficialmente per ragioni di sicurezza. Secondo i suoi oppositori per evitare una sconfitta. La popolazione karen fa parte di quel 35 per cento di minoranza etnica che si oppone anche con le armi al controllo del governo centrale fin dall’indipendenza del 1948.
Il gruppo che ha intrapreso la guerriglia con l’esercito, infatti, non riconosce il cessate il fuoco firmato dal Dkba e non accetta di cedere le armi trasformandosi, come prevede la costituzione del 2008 voluta dal governo, in una sorta di guardia di frontiera. Lunedì notte, quando l’esercito birmano ha ripreso il controllo della cittadina di Myawaddy, gli scontri si sono spostati 200 chilometri a Sud, nella zona del Passo delle Tre Pagode, anche se con un’intensità minore rispetto ai giorni passati.
Proprio nell’area del Passo delle Tre Pagode, abitata da circa 70mila birmani, oltre la metà in fuga verso la Thailandia, questa mattina 80 monaci buddisti hanno chiesto ai ribelli del Dkba di cessare i combattimenti con le truppe governative «se non vogliono distruggere altre vite umane». Gli stessi monaci stanno sorvegliando le case delle persone fuggite per evitare saccheggi.
Fonti giornalistiche sul confine thailandese raccontano di piccoli scontri a bassa intensità lungo il fiume che divide Birmania e Thailandia. L’esercito thailandese ha riferito che ieri almeno cinque persone di un villaggio sono rimaste ferite quando un razzo è atterrato sul suolo. Ieri, nel corso della battaglia, la New Day School, interamente finanziata dalla ong italiana “Aiutare senza confini” è stata evacuata a causa del lancio di granate. I 250 studenti e i loro genitori hanno trovato rifugio nella scuola Parami, anch'essa finanziata da Aiutare senza Confini, e rimangono per il momento ospitati in questa struttura. Martedì sera, quando la battaglia era oramai conclusa, le prime notizie parlavano di una bambina birmana di 9 anni morta perché coinvolta involontariamente negli scontri e nove persone ferite da colpi vaganti martedì a Mae Sot e 5 a Myawaddy.
Intanto, i 20mila profughi che avevano abbandonato precipitosamente per scappare alle violenze le proprie abitazione hanno cominciato a farvi ritorno spontaneamente e nei campi allestiti sul confine thailandese nella tarda serat di ieri rimanevano soltanto circa 3mila persone. Molte delle quali arrivate da Three Pagoda Pass, dove continuano a registrarsi sporadici scontri tra esercito e ribelli.
Sul fronte elezioni, invece, tutto è andato come previsto. I militari volevano vincere facile e ci sono riusciti. L’affluenza si dovrebbe aggirare sul 60-70 per cento e come era previsto il nuovo parlamento birmano sarà dominato dal partito del regime: l’Usdp. «Abbiamo avuto circa l’80 per cento dei voti» ha fatto sapere il generale Thura Shwe Mann, uno dei 27 alti militari che nei mesi scorsi ha smesso l’uniforme per candidarsi il quale la nelle fila del “Partito Unione Solidarietà e Sviluppo” (Usdp), espressione della giunta militare. Un risultato prevedibile visto che il 25 per cento delle poltrone era già stato assegnato ai militari.
I partiti dell’opposizione hanno riconosciuto la sconfitta, ma hanno denunciato i brogli. La “Forza democratica nazionale”, principale movimento di opposizione, ha confermato di aver conquistato 16 seggi nella ex capital Rangon ma nessuno nel resto del Paese. «Eravamo in testa all'inizio ma poi l'Usdp è passato in vantaggio grazie al voto anticipato, e il risultato è cambiato completamente», ha spiegato Khin Maung Swe, leader del partito nato da una costola della “Lega nazionale per la democrazia” (Nld) di Aung San Suu Kyi.
Tolto qualche altro seggio conquistato da partitini su base etnica, il regime può contare su una maggioranza blindata in tutti gli organi legislativi, che a loro volta dovranno eleggere un presidente con ampi poteri.
Prima delle elezioni ufficiali nello stato di Karen è nato in modo clandestino il “parlamento del popolo birmano”. «E’ composto dagli eletti nel 1990, fra cui i membri della Lega nazionale per la democrazia, il partito di Auug San Suu Kyi escluso da queste elezioni birmane» spiega la Brighi, che ha assistito alla prima riunione dell’assemblea «Il parlamento è stato allargato anche a rappresentanti delle tre principali etnie birmane, quella karena, mon e rakhine». L’assemblea ha rifiutato i risultati delle elezioni, si è dichiarata contraria alla strategia per il nucleare militare e civile della giunta birmana, ha denunciato l’accondiscendenza del regime verso la coltivazione oppio e la vendita della droga e proposto una legge per il rispetto dei diritti umani, aderendo alle convenzioni del lavoro dell’Organizzazione internazionale del lavoro.
La giunta militare birmania si auspicava che le elezioni servissero per un maggiore riconoscimento sul fronte internazionale. Il leader della giunta militare Than Shwe, invece, si ritrova alle prese con una insurrezione armata nel Sud del Paese e una condanna per elezioni rubate sia dal Presidente Americano Barack Obama («le elezioni non sono state libere e giuste»), che da quello dell’Onu Ban Ki-moon («le elezioni sono state poco trasparenti»). Ban Ki-moon ha inoltre invitato la giunta militare birmana a rilasciare tutti i prigionieri politici, compresa Aung San Suu Kyi, che stando alle promesse del governo dovrebbe essere libera il 13 novembre.
Mentre tutti paesi occidentali hanno condannato “la farsa”, la Cina, principale investitore straniero in Birmania, ha espresso la propria approvazione per la tornata elettorale. «È stato un passo di importanza cruciale verso una transizione ad un governo prodotto dal voto, e in questo senso sono le benvenute», ha affermato il portavoce del ministero degli esteri Hong Lei. Le elezioni si sono svolte - ha aggiunto - «senza smagliature».
La concomitanza tra il voto, poi, e l’esplosione violenta delle proteste può non essere casuale. Per il regime le elezioni dovevano sancire il definitivo status quo con le milizie ribelli che vivono nell’area del fiume Irrawaddy. Non l’hanno fatto e la Birmania si trova di nuovo punto e a capo. Senza che niente sia cambiato.
Andrea Bernardi (inviato di Unimondo) e Emanuela Citterio