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Attentato di Ankara: andare oltre la ricerca dei "mandanti"
Popoli minacciati
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ISTANBUL - Pensando alla Turchia in questi giorni, le speculazioni si sprecano. Dopo la doppia esplosione che ha ucciso ad Ankara più di cento persone durante una marcia per la pace, la sfida ad indovinare chi sia il mandante della più grave strage nella storia repubblicana del paese si acuisce giorno dopo giorno, e i maggiori media internazionali spesso si limitano a riportare le parole dei leader dei vari partiti coinvolti nella competizione per le prossime elezioni del 1° Novembre.
In primis le reazioni del partito al governo, il Partito per la Giustizia e lo sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi – AKP) , che accusa a rotazione lo Stato Islamico ( con il quale lo stesso AKP è accusato di essere colluso, avendo fornito armi ed aiuti per la caduta di Assad in Siria), il gruppo di estrema sinistra DHKP e il Partito dei lavoratori del Kurdistan, PKK . Va ricordato che la manifestazione dello scorso sabato era proprio per la pace nel sud-est del paese; in questa zona da Agosto ci sono scontri tra il PKK, che per l’ordinamento turco è un’organizzazione terroristica, e le forze di sicurezza turche dopo una tregua di due anni che è stata interrotta il 20 Luglio scorso per via dell’attentato nella cittadina di Suruç. A Suruç per la prima volta sono stati uccisi civili turchi, trenta ragazzi che si stavano organizzando per portare aiuti nelle cittadine curde al confine con la Siria. Il PKK, che da allora ha reagito colpendo obiettivi non civili, ha ora dichiarato una seconda tregua, salvo in caso di attacco diretto, “per garantire elezioni libere e democratiche”.
Ancora, si riportano le parole del secondo partito in parlamento, che ha confermato la sua opposizione al governo Erdoğan non formando un governo di coalizione prima delle prossime elezioni: il Partito popolare Repubblicano - Cumhuriyet Halk Partisi (CHP) - incentra ora la sua campagna elettorale sulla mancanza di un apparato di sicurezza adeguato da parte dell’AKP. Il suo leader Kemal Kılıçdaroğlu, in una conferenza stampa, ha chiesto le dimissioni del Ministro dell’Interno dopo gli eventi di sabato scorso.
Infine, le parole più attese sono quelle del Partito Democratico del Popolo - Halkların Demokratik Partisi (HDP). In tutti i tre attentati che hanno coinvolto dei civili dal 20 Luglio ad oggi ( nelle città di Suruç, Diyarbakır ed Ankara) le persone coinvolte erano affiliate al partito, che nelle elezioni del 7 Giugno scorso ha superato lo sbarramento al 13% e ottenuto 80 seggi in parlamento; la prima volta, per un movimento filo- curdo. “Questo attentato non è stato contro l’unità e l’integrità territoriale dello Stato, ma contro le persone ed è stato perpetrato dallo Stato stesso”, afferma il leader dell’HDP Selahattin Demirtaş.
Quella di Demirtaş sembra essere la presa di posizione crescente all’interno del paese: additare lo Stato stesso come responsabile di questi avvenimenti, in particolare nella persona del Presidente della Repubblica Erdoğan. Come biasimarli, viste le ampie possibilità di azione per il partito al governo nel caso venga dichiarato uno stato di emergenza. Lo stato di emergenza, secondo l’art. 120 della Costituzione Turca, può essere dichiarato nel caso di “diffusi atti di violenza volti a distruggere il libero ordine democratico […] e/o le libertà e i diritti fondamentali, portando ad un deterioramento dell’ordine pubblico”. In questa situazione, il Consiglio dei Ministri può emanare decreti con forza di legge senza che passino per il Parlamento e restringere libertà e diritti fondamentali “nel modo e con i mezzi più adeguati”, come prevedono i primi articoli della Costituzione.
Anche senza che lo stato di emergenza sia stato dichiarato, si manifestano quotidianamente limiti alla libertà di espressione (decine i giornalisti sotto accusa negli ultimi mesi, Twitter e Facebook non funzionanti per due giorni dopo l’attacco, il divieto di diffondere in televisione le immagini del massacro), di movimento ( il coprifuoco imposto a Settembre nel sud- est del Paese) e al diritto stesso alla vita, come riportato poi.
Contrario alla tesi di una manovra dello Stato per acuire la già tesissima situazione in Turchia è l’avvocato Nazif Koray Kırca, che disegna una prospettiva così ampia da confondere tutte le opinioni precedenti: “Gli osservatori nazionali ed internazionali sottovalutano la secolare tradizione di statisti di questo paese, i cui rapporti si intrecciano da prima dell’Impero Ottomano con tutte le più grandi potenze mondiali. I voti dell’HDP cresceranno dopo questo episodio, il rischio per la popolarità del governo è troppo grande perché si sia voluto provocare uno stato di emergenza. Un attento osservatore dovrebbe ad esempio conoscere gli innumerevoli accordi militari tra Turchia, Russia ed Israele prima di valutare le alleanze di Erdoğan per combattere il regime siriano. Dovrebbe ricordare la spaccatura con gli Stati Uniti che ospitano il famigerato nemico dell’AKP Fetullah Gülen, predicatore e politologo turco auto-esiliatosi in Pennsylvania, il cui movimento Hizmet conta milioni di seguaci in Turchia. I giochi che muovono la politica turca oggigiorno sono fuori dalla portata degli osservatori nazionali ed internazionali. Solo il tempo farà capire a tutti, come sta accadendo in Siria, che le divisioni interne non sono tutto”.
Se davvero il massacro dello scorso sabato fosse pensato per destabilizzare l’AKP, sembra che la strategia sia adeguata. La macchia d’olio di piccoli o grandi gruppi di persone che si ritrovano per gridare “Non vogliamo questo stato fascista, Erdoğan assassino!” cresce di giorno in giorno.
Per arginare i danni all’immagine, le autorità non hanno remore nel reprimere le proteste in corso nella maggior parte delle città turche. Ad Istanbul poliziotti in borghese hanno fermato un piccolo gruppo di manifestanti che si stavano imbarcando sul traghetto che attraversa il Bosforo, da Kadiköy ad Eminönü, facendoli scendere con la forza e arrestandone alcuni.
Nel dıstretto di Diyarbakır, la dodicenne Helin Şen è stata colpita a morte alla testa da tre proiettili di plastica dura, ed uno solo è bastato ad uccidere Tevriz Dora, 3 anni, ad Adana.
“Dato che viviamo in Turchia, sappiamo che la vicenda non verrà indagata come si dovrebbe e che nessuno dei mandanti e dei responsabili che si trovano dietro le quinte dovrà rispondere dell’accaduto”, ha scritto su HaberTürk l'analista Soli Özel. “Questo dubbio è confermato dal fatto che, fino ad oggi, non sono mai state presentate prove convincenti sui collegamenti presenti dietro agli attacchi terroristici passati di cui sono stati catturati gli esecutori”.
“Proprio come accaduto per le centinaia di omicidi politici commessi dagli anni ’90 fino alla metà del 2000, da quello che più tardi è stato definito lo Stato profondo” scrive Fazila Mat.
Un’espressione che agli italiani dovrebbe ricordare i cosiddetti anni di piombo. Dovremmo sapere che molte verità possono venire a galla solo molti anni dopo. Dovremmo intuire che le strategie della tensione sono complicate, pensate per confondere gli animi e portarli alla scelta politica meno razionale.
Sofia Verza