Dove i sogni si spengono

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Non è facile entrare in un campo per rifugiati in Etiopia, e ancor meno restarci come prete. È possibile grazie all’invito rivoltomi dalla dottoressa Alganesh, conosciuta al campo di Shousha in Tunisia l’anno scorso. La sua priorità è cercar di liberare i profughi eritrei tenuti prigionieri in Egitto, che siano in prigioni governative come clandestini illegali, o nelle prigioni dei beduini nel Sinai come merce da riscattare o da uccidere per ottenerne gli organi da rivendere.

I due campi – Mai Aini (Fonte d’acqua) e Adi Harush presso il villaggio di Mai Tzibri (Acqua fangosa) - nel Nord dell’Etiopia che abbiamo visitato accolgono questi profughi. Sono qui perché hanno dovuto rinunciare al sogno di arrivare in Israele, nei loro piani l’unico sbocco per una vita che offra loro un'irrinunciabile dignità e libertà. Ma almeno in questi campi hanno il minimo per vivere dato dalle Nazioni Unite; sono in una regione dell’Etiopia, il Tigrai, che parla la loro lingua e condivide la loro fede cristiana (quasi tutti nel Tigrai portano al collo, ben visibile, la croce); forse più importante ancora, vi sono decine di migliaia di altri Eritrei come loro, fuggiti a piedi dalla vicina Eritrea, e che continuano a arrivare.

Le cifre ufficiali di ARRA, l’agenzia etiopica per i rifugiati, li stimano a 32.000, ma devono essere molti di meno (e comunque sempre troppi in uno spazio ristretto). Sono quasi tutti giovani, e il problema più grande è che durante la giornata non hanno quasi nulla da fare: a questo si aggiunge la mancanza di prospettive, se non la speranza che il regime dittatoriale dell’Eritrea finalmente imploda. Vi sono state violenze sessuali contro ragazze, non c’è una protezione specifica per i minorenni, la notte i bar con l’abuso di alcol o i tendoni-cinema anche con film porno sono frequentati. Una ragazza incinta è morta mentre doveva partorire, proprio quando eravamo a Mai Aini, ed è la terza ragazza incinta che muore quest’anno.

A differenza del campo di Shousha, dove in poco più di un anno i rifugiati scappati dalla guerra in Libia hanno cominciato a partire, accolti da vari Paesi europei e negli USA o in Canada, a Mai Aini e Adi Arush molti son là da tre-quattro anni, e sono poche centinaia quelli che ogni anno vengono accolti in un Paese terzo, in genere gli Stati Uniti. Così molti escono dal campo, attirati dalle promesse di contrabbandieri che promettono di farli arrivare in Israele. L’Eritrea è stata accusata a livello internazionale di esser dietro a questo commercio di nuovi schiavi, in complicità con autorità sudanesi e egiziane, in modo da realizzare un guadagno dalla loro vendita. La dott. Alganesh ha scoperto che a Shire, la cittadina più vicina, c'erano decine di rifugiati minorenni che Eritrei dell’opposizione formavano militarmente per infiltrarli poi in Eritrea! Anche quando ha denunciato una ventina di trafficanti che operavano all’interno del campo, il loro arresto è durato pochissimo, e ora hanno ripreso le loro attività. Mentre eravamo ancora ad Addis Abeba, capitale dell'Etiopia, la dott. Alganesh ha ricevuto una telefonata da Shegherab, un campo profughi in Sudan: i poliziotti sudanesi stavano assaltando gli Eritrei per farli scappare dal campo, così che i beduini del posto potessero catturarli e poi rivenderli ad altri beduini, e così via fino a domandare dai 20.000 ai 30.000 dollari per ciascuno alle loro famiglie. E questo succede regolarmente! Di recente in quel campo, ufficialmente sotto la protezione dell’UNHCR, l'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, sette giovani eritrei sono stati uccisi dai poliziotti: ufficialmente, perché avevano opposto resistenza.

È una situazione infernale e l’unico modo di arginare questo male è cercare di convincere i profughi a Mai Aini e Adi Arush di restarci. Per quest'opera di convincimento la dott. Alganesh si è avvalsa delle fotografie da lei stessa scattate ai prigionieri, battuti o torturati in Egitto, e ai cadaveri dei giovani uccisi dai beduini del Sinai per prelevare loro gli organi da rivendere nei paesi arabi, mostrandole a un pubblico di un migliaio di giovani. Una decina di giorni fa la tv Al Jazeera ha trasmesso un documentario su questo traffico; spero che sia un primo segno di interesse di far scoppiare questo bubbone di violenza finora tranquillamente ignorato.

Sono rimasto solo cinque giorni a Mai Aini, ospite di Semeré, un ex seminarista cappuccino; una casetta di pietre e fango con due stanze da letto, dove vive solo, visto che gli altri tre giovani che vi abitavano sono partiti, anche loro all’avventura. Questi giovani, scappando dall’Eritrea, dove avrebbero dovuto fare il servizio militare illimitato, hanno con ciò dovuto rinunciare alla loro vocazione. Una decina di loro a Mai Aini erano già in teologia, ma a quanto pare questa fuga ha tagliato tutti i ponti con le loro congregazioni. D’altra parte, in Eritrea tale è la paura delle delazioni, che questi giovani non avvertono né la famiglia né i superiori della loro decisione di fuggire. Fa pena vedere queste vocazioni cancellate in questo modo!

Don Sandro Depretis

Tratto da Vita Trentina

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