Evoluti… ma davvero?!?

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Foto: Unsplash.com

Esseri umani. Ci consideriamo la specie più intelligente ed evoluta del Pianeta, quella in grado di accrescere rapidamente ed esponenzialmente il proprio grado di conoscenza. Ma noi non siamo né i primi né i soli esseri intelligenti ad aver popolato la Terra. Dunque perché ne siamo i dominatori indiscussi, anche se ampiamente discutibili?

C’è una cosa che ci ha fatto fare lunghi e rapidi balzi in avanti: il cambiamento culturale. E lo ha fatto ancora più dell’evoluzione genetica, che è molto più lenta e non sarebbe mai riuscita da sola a renderci così abili nel colonizzare praticamente tutte le terre abitabili del mondo, estraendo prima e saccheggiando poi risorse che potevano moderatamente appartenere a tutti e sono diventate avidamente solo di pochi. Ma non è così facile, e nemmeno così scontato: proprio queste caratteristiche che hanno dato una spinta agli esseri umani per diventare padroni del mondo potrebbero essere le stesse che ne ostacolano la resilienza in termini di adattamento a cambiamenti pressanti, come quello climatico.

Timothy M. Waring, biologo evoluzionista dell’Università del Maine, ha pubblicato non molto tempo fa uno studio su una delle più longeve riviste scientifiche a livello mondiale la «Philosofical Transactions of the Royal Society B» (sezione dedicata alle Scienze biologiche), mettendo in evidenza proprio questo che lui chiama “paradosso evolutivo”: il nostro modo di crescere ci impedisce di crescere. Ovvero, le caratteristiche che ci hanno permesso di evolvere a livello di gruppo sono le stesse che ora ci creano pesanti difficoltà nell’affrontare le attuali sfide ambientali, generando competizioni e conflitti che impediscono di trovare soluzioni globali valide a livello planetario. 

Quelli messi in atto negli ultimi 100 mila anni sono sistemi apparentemente lanciati a bomba verso nuove entusiasmanti frontiere di potenza e ricchezza, ma di fatto divoratori voraci di beni comuni, nel senso più vasto che possiamo visualizzare per questo termine. Di fatto un arsenale di armi, non necessariamente fatte di piombo e ferro, che attraverso specifici sistemi sociali e con il fondamentale apporto delle scienze tecnologiche sfruttano spudoratamente l’ambiente. Una strategia di sopravvivenza che ci ha caratterizzati fin dall’inizio: usiamo le risorse di un luogo e quando finiscono ci spostiamo in un altro, combattiamo se c’è da combattere per averne il totale dominio (altro che unirci per affrontare insieme le difficoltà!) e poi via, in questo cerchio che si chiude a spirale proprio intorno a noi via via che le risorse si fanno meno accessibili.

La crescita esponenziale della nostra popolazione e le drammatiche e rapide modifiche nei parametri ambientali, combinate con i sistemi tecnologici, hanno creato un nuovo ambiente evolutivo per l’uomo che, secondo i ricercatori, porta di fatto in sé il rischio maggiore per l’umanità stessa, e non solo. Gli impatti di questo sistema hanno buone probabilità di generare una delle peggiori estinzioni di massa nell’arco di 3,7 miliardi di anni di vita sulla terra, non causato da eventi violenti e drammatici (come eruzioni vulcaniche o impatti), ma da cambiamenti biogenici imputabili a un’unica specie, la nostra. Tanto che molti chiamano quest’era Antropocene, evidenziando così la responsabilità tutta umana della situazione generata a livello planetario.

Già, perché le risorse della biosfera mica sono infinite, e di questo forse un barlume di consapevolezza vaga nel vuoto dei nostri egoismi. E per la crisi climatica più che mai occorrerebbero sistemi di cooperazione globale sia normativi, che economici che tecnici. In pratica, un modo di evolverci diverso. Semplice, no?

No. “Non si tratta solo della cosa più difficile che la nostra specie abbia mai fatto. Il problema più grande è che le caratteristiche centrali dell’evoluzione umana stanno probabilmente lavorando contro la nostra capacità di risolverle. Per risolvere le sfide collettive globali dobbiamo nuotare controcorrente”, ha dichiarato Waring. Un po’ di ottimismo servirebbe: abbiamo già superato sfide impegnative, da quelle del buco dell’ozono a quelle poste dalle piogge acide, e l’abbiamo fatto grazie a tre caratteristiche che il gruppo di studio ha individuato: il gruppo di lavoro era maggiore della portata del problema; esisteva una pressione esterna che sollecitava la ricerca di soluzioni; il pericolo di non fare nulla era stato messo in luce da fatti. Ma per la crisi climatica, siamo su questa stessa strada? Ahinoi, no: c’è un problema immenso e ramificato, e una minima parte del nostro “gruppo umano” sta lavorando per risolverlo; non ci sono autorità tali che possano imporre soluzioni a livello mondiale; tutto sommato ci sono ancora troppe persone che non si rendono conto che le risorse sono in scadenza e che non si sono altri luoghi dove spostarsi a cercarne altre. Come si dice, there is no Planet B. 

In pratica, i risultati emersi dallo studio del team di ricercatori mettono in luce che ci siamo evoluti perseguendo culturalmente interessi personali e invitano a incentivare la cooperazione per superare questo paradosso che impedisce di liberarci dalla trappola mortale che ci siamo costruiti. Ammesso che questa lettura ci convinca, avremo davvero il tempo di approntare nuovi meccanismi per dimostrare che la nostra specie ha una struttura adeguata a evolvere davvero?

Anna Molinari

Giornalista freelance e formatrice, laureata in Scienze filosofiche, collabora con diverse realtà sui temi della comunicazione ambientale. Gestisce il progetto indipendente www.ecoselvatica.it per la divulgazione filosofica in natura attraverso laboratori e approfondimenti. È istruttrice CSEN di Forest Bathing. Ha pubblicato i libri Ventodentro (2020) e Come perla in conchiglia (2024). Per la testata si occupa principalmente di tematiche legate a fauna selvatica, aree protette e tutela del territorio e delle comunità locali.

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