Balcani: anche griffes italiane nello sfruttamento del lavoro

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A distanza di otto anni le condizioni di lavoro sono rimaste sostanzialmente immutate nei laboratori a domicilio nell'Europa dell'Est e in Turchia: 15 ore di lavoro al giorno per 6 o 7 giorni alla settimana, salari insufficienti o al di sotto dei minimi di legge, precarietà, assenza di tutele sanitarie e antinfortunistiche, molestie sessuali e maltrattamenti, discriminazioni e attività antisindacali sono una costante nell'industria di confezioni per l'esportazione. Lo rivela la terza pubblicazione della Clean Clothes Campaign sulle condizioni di lavoro nell'Europa dell'Est (Rapporto in .pdf). La Turchia è il paese dove sono stati riscontrati i peggiori abusi, fra cui l'impiego sistematico di lavoro minorile. Fra i primi dieci paesi fornitori della UE, la Turchia occupa il secondo posto dopo la Cina, con una quota dell'11%, Polonia e Romania sono in sesta posizione con il 4%. Il comparto del tessile-abbigliamento rappresenta il 15,5% del settore manifatturiero in Turchia, l'11% nelle repubbliche baltiche, poco meno del 10% in Romania e Slovenia. Predominante la componente femminile, fra il 90 e il 95% della manodopera totale.

"Il meccanismo commerciale e tariffario introdotto dall'Unione europea, che consente alle imprese di esportare semilavorati o materie prime al di fuori del territorio della Comunità per reimportare i prodotti finiti senza pagare i dazi all'importazione (Traffico di perfezionamento passivo o TPP), ha incentivato le delocalizzazioni nell'Est europeo, dando origine a un numero sterminato di piccole imprese specializzate nella cucitura in conto terzi, ma determinando una crisi irreversibile per le industrie tessili e per gli stabilimenti a produzione integrata, molto diffusi nei paesi ex-comunisti, che sfornavano capi finiti partendo dal filato. Oggi, con l'ingresso progressivo nella UE dei paesi dell'Est, si pone il problema di una revisione dei meccanismi di scambio commerciale ed è probabile che in futuro a restare sul mercato saranno solo poche, grandi imprese di subfornitura.

Fra le imprese committenti che si spartiscono quest'area geografica sono segnalate le italiane Armani, Benetton, Diadora, Hugo Boss (Valentino), Miroglio, Trussardi e una serie di altri marchi di minor fama. La marcia delle griffes verso paesi con minori diritti e costo del lavoro più basso prosegue intanto in direzione della Lituania, dell'Ucraina, della Russia" - riporta Clean Clothes Campaign.

E mentre in Italia il 18 gennaio scorso la Commissione industria del Senato ha approvato il disegno di legge sulla riconoscibilità e la tutela dei prodotti italiani, due operaie bulgare sono decedute nei giorni scorsi allafabbrica italiana di calzature Euroshoes, a 30 chilometri da Sofia. "Condizioni di lavoro sfibranti" sarebbe il motivo della duplice morte secondo i media e le televisioni locali. Le due operaie erano sorelle: la prima, Raina, 48 anni, è morta il 4 gennaio in ospedale stroncata da un ictus. La seconda, Pavlina, 38 anni, è stata colta da infarto in ditta durante l'intervallo. La Euroshoes, con sede a Dupnitsa, impiega 1.600 persone e produce scarpe che reimposta in Italia; è attiva da 14 anni. Secondo l'agenzia "Sofia News", gli ispettori hanno riscontrato "decine di violazioni delle norme del lavoro", con condizioni "estenuanti". Agli operai della fabbrica italiana non sarebbero state concesse pause e di regola neppure riposi settimanali - riporta Il Manifesto.

E sempre la Clean Clothes Campaign annuncia che è in libreria la "Guida al Vestire Critico" dell'editrice Emi. La pubblicazione si pone tre obiettivi: fare conoscere le problematiche sociali e ambientali esistenti dietro i capi di vestiario, fornire consigli per un vestire responsabile e dare informazioni sulle imprese più in vista del settore abbigliamento e calzature. La ricerca, che è durata un anno, è stata condotta dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo in collaborazione con vari amici a distanza. [GB]

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